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domenica 25 ottobre 2020

La battaglia del Vallo Angrivariano da (storie Romane)

Dopo la fine delle guerre civili, Augusto aveva espanso l’impero nei territori dei barbariNorico, Pannonia, Illirico. Tra il 12 a.C. e il 9 d.C., dopo una campagna militare ventennale la Germania tra il Reno e l’Elba era considerata dai romani come una nuova provincia acquisita. L’obiettivo era probabilmente quello di ridurre notevolmente la linea di confine, rendendolo più facile da difendere: per questo venne inviato prima Marco Vipsanio Agrippa e poi Druso Maggiore e Tiberio, che presero possesso della nuova provincia. A governare la regione, nel 7 d.C., venne inviato Publio Quintilio Varo, esperto senatore già governatore della Siria, ma che tuttavia si trovava ad amministrare la provincia forse con eccessiva durezza, considerando i germani pienamente sottomessi quando ancora non lo erano del tutto.  

« I soldati romani si trovavano là [in Germania] a svernare, e delle città stavano per essere fondate, mentre i barbari si stavano adattando al nuovo tenore di vita, frequentavano le piazze e si ritrovavano pacificamente […] non avevano tuttavia dimenticato i loro antichi costumi […] ma perdevano per strada progressivamente le loro tradizioni […] ma quando Varo assunse il comando dell’esercito che si trovava in Germania […] li forzò ad adeguarsi ad un cambiamento troppo violento, imponendo loro ordini come se si rivolgesse a degli schiavi e costringendoli ad una tassazione esagerata, come accade per gli stati sottomessi. I Germani non tollerarono questa situazione, poiché i loro capi miravano a ripristinare l’antico e tradizionale stato di cose, mentre i loro popoli preferivano i precedenti ordinamenti al dominio di un popolo straniero. »

CASSIO DIONE, STORIA ROMANA, LVI,18
Teutoburgo

Nel 9 d.C., non sappiamo per quale motivo, Arminio decise di tradire Varo e di cacciare i romani, ergendosi a capo delle tribù germaniche. Forse Arminio credeva nella libertà del suo popolo, forse voleva solo ottenere il potere (che non avrebbe mai ottenuto a Roma nella sua misura maggiore non potendo diventare senatore e quindi non potendo neanche comandare forze legionarie), fatto sta che segretamente organizzò una sollevazione di tribù germaniche. Alla notizia della ribellione, mentre Varo si preparava a ritirarsi nei quartieri invernali sopraggiungendo la fine dell’estate, Arminio convinse Varo a muoversi immediatamente con le sue tre legioni a reprimere la rivolta, di cui tuttavia forniva informazioni errate. Riuscì infine a persuadere Varo a intraprendere una strada estremamente pericolosa, all’interno delle foreste germaniche, per attaccare i ribelli. Non sappiamo perché Varo accettò sempre le parole di Arminio come vere, ma sicuramente si fidava di lui senza esitazioni.

Arminio finse una ribellione, proprio quando i romani stavano per ritornare negli accampamenti invernali. Il governatore romano era stato avvisato della congiura ma non vi prestò attenzione:

« […] Segeste, un uomo di quel popolo [i Cherusci] rimasto fedele ai Romani, insisteva che i congiurati venissero incatenati. Ma il fato aveva preso il sopravvento ed aveva offuscato l’intelligenza di Varo […] egli riteneva che tale manifestazione di fedeltà nei suoi riguardi [da parte di Arminio] fosse una prova delle sue qualità […] »

« [Varo] pose la sua fiducia su entrambi [Arminio ed il padre Sigimero], e poiché non si aspettava nessuna aggressione, non solo non credette a tutti quelli che sospettavano del tradimento e che lo invitavano a guardarsi alle spalle, anzi li rimproverò per aver creato un inutile clima di tensione e di aver calunniato i Germani […] »

VELLEIO PATERCOLO, STORIA ROMANA, II, 118; CASSIO DIONE COCCEIANO, STORIA ROMANA, LVI, 19

Varo, accompagnato da Arminio, marciò verso ovest, ma fu costretto a mutare il percorso, finendo nella foresta di Teutoburgo, esattamente dove voleva il cavaliere cherusco, che era consapevole di non poter battere i romani in campo aperto. La colonna romana, distesa su molti chilometri e formata da tre legioni e diversi reparti ausiliari, venne attaccata puntualmente e ripetutamente, senza che i romani potessero opporre una vera e propria resistenza, non potendosi schierare a battaglia.

Tuttavia, nonostante questo, i romani resistettero per tre giorni. Alla fine del primo giorno, sebbene le perdite fossero numerose, Varo riuscì ad accamparsi su un’altura.Ma i romani erano ormai accerchiati e nel mezzo della foresta: durante il secondo giorno Varo tentò di portare l’esercito fuori dalla selva, dopo aver abbandonato tutto meno che l’indispensabile e tentato di serrare i ranghi. I romani però non riuscivano a dispiegare i reparti nella foresta e finivano per darsi fastidio a vicenda mentre i germani li attaccavano. Il terzo giorno fu la fine: ripreso a piovere copiosamente e decimati, i romani furono attaccati senza tregua. Varo si tolse la vita, mentre i sopravvissuti che avevano quasi raggiunto l’uscita della foresta furono quasi del tutto massacrati dai germani.

Tre legioni (la XVII, XVIII e XIX) furono sterminate e mai più ricostruite. Quando la notizia giunse a Roma Augusto perse completamente la testa, sia per la rabbia sia per il timore di un’invasione germanica. Narra Svetonio che Augusto prendesse a testate il muro gridando contro Varo:

« Quando giunse la notizia […] dicono che Augusto si mostrasse così avvilito da lasciarsi crescere la barba ed i capelli, sbattendo, di tanto in tanto, la testa contro le porte e gridando: “Varo rendimi le mie legioni!”. Dicono anche che considerò l’anniversario di quella disfatta come un giorno di lutto e tristezza. »

SVETONIO, AUGUSTO, 23

Idistaviso

I germani si avventarono sui sopravvissuti, torturandoli e massacrandoli, tanto da rendere poi difficoltoso il riconoscimento dei morti quando Germanico li trovò alcuni anni dopo:

«La crudeltà dei nemici germani aveva fatto a pezzi il cadavere, quasi completamente carbonizzato, di Varo, e la sua testa, una volta tagliata, fu portata a Maroboduo, il quale la inviò a Tiberio Cesare, perché fosse seppellita con onore […] Poiché i Germani sfogavano la loro crudeltà sui prigionieri romani, Caldo Celio [caduto prigioniero], un giovane degno della nobiltà della sua famiglia, compì un gesto straordinario. Afferrate le catene che lo tenevano legato, se le diede sulla testa con tale violenza da morire velocemente per la fuoriuscita di copioso sangue e delle cervella […]»

«[…] nulla di più cruento di quel massacro fra le paludi e nelle foreste […] ad alcuni soldati romani strapparono gli occhi, ad altri tagliarono le mani, di uno fu cucita la bocca dopo avergli tagliato la lingua […]»

«[Germanico giunse sul luogo della battaglia, ove] nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa ammucchiate e disperse […] sparsi intorno […] sui tronchi degli alberi erano conficcati teschi umani. Nei vicini boschi sacri si vedevano altari su cui i Germani avevano sacrificato i tribuni ed i principali centurioni […]»

VELLEIO PATERCOLO, STORIA ROMANA II, 119-20
FLORO, EPITOME DE T. LIVIO BELLORUM OMNIUM ANNORUM DCC LIBRI DUO, II, 36-37
TACITO, ANNALI, I, 61

Tiberio aveva deciso di seguire gli insegnamenti di Augusto e quindi di non espandere la frontiera, ma di mantenere il limes. Perciò, dopo un suo primo intervento tra il 10 e 11 d.C., volto a prevenire invasioni come quelle dei cimbri e dei teutoni un secolo prima, una volta diventato imperatore nel 14, fu il nipote Germanico (figlio di suo fratello Druso maggiore) a terminare l’opera. Si trovava infatti in Gallia a raccogliere i dati del censimento voluto da Augusto quando seppe della morte di quest’ultimo. Mossosi a sedare la rivolta delle legioni germaniche dopo la notizia della morte del principe, colse l’occasione per intraprendere una campagna contro i germani.

La campagna di Germanico procedeva bene e decise di passare all’attacco, attraversando il Reno nella zona occupata dei batavi, andando incontro alle forze che avevano messo insieme i barbari dell’ex cavaliere romano. Prima della battaglia Arminio chiese di parlare col fratello Flavo, che combatteva ancora per i romani. L’incontro, approvato da Germanico, si fece in riva al fiume, che li separava:

«Tra i Romani e i Cherusci scorreva il fiume Visurgi. Arminio con gli altri capi si fermò su la riva e domandò se Cesare era giunto. Gli fu risposto che era già lì; allora pregò che gli fosse consentito un colloquio con il fratello. Questi, di nome Flavio, militava nel nostro esercito ed era noto per la sua lealtà. Pochi anni prima, mentre combatteva agli ordini di Tiberio, per una ferita aveva perduto un occhio. Ricevuta l’autorizzazione, si fa avanti e Arminio lo saluta; poi fa allontanare la scorta e chiede che vadano via anche gli arcieri, schierati lungo la riva. Non appena se ne furono andati, Arminio domanda al fratello come mai ha uno sfregio sul volto. Questi allora gli riferisce il luogo e la battaglia dove è avvenuto e Arminio gli chiede quale compenso abbia ricevuto; Flavio gli comunica l’aumento di stipendio, il bracciale, la corona e le altre decorazioni militari ottenute; e Arminio schernisce la grama mercede avuta per essere schiavo. A questo punto si mettono ad altercare uno contro l’altro: uno esalta la grandezza di Roma, la potenza dell’imperatore, le gravi pene inflitte ai vinti, la clemenza accordata agli arresi; e gli assicura che sua moglie e suo figlio non sono trattati da nemici. L’altro ricorda la santità della patria, la libertà avita, gli dèi tutelari della Germania e la madre, che si unisce alle sue preghiere; e lo ammonisce a non disertare, a non tradire i suoi. Poco a poco scesero alle ingiurie e poco mancò che si azzuffassero e neppure il fiume che scorreva tra loro avrebbe costituito un ostacolo, se non fosse accorso Stertinio a calmare Flavio, il quale, infuriato, chiedeva armi e un cavallo. Sull’altra riva si scorgeva Arminio che in atteggiamento minaccioso ci sfidava a battaglia; nel suo parlare frammischiava parecchi vocaboli in latino, poiché aveva militato negli accampamenti romani come comandante dei suoi connazionali.»

TACITO, ANNALES II, 9-10

Cariovaldo, capo dei batavi, alleati dei romani, una volta attraversato il fiume, si lanciò all’inseguimento dei cherusci, senza sospettare un’imboscata: infatti erano fuggiti dalla pianura per evitare lo scontro in campo aperto. L’attacco a sorpresa riuscì e i batavi si diedero alla fuga, senza successo, poiché ormai erano circondati. Tentarono di sfondare l’accerchiamento, ma Cariovaldo fu colpito e i batavi si salvarono solo grazie all’intervento della cavalleria di Stertino, che misero in salvo i sopravvissuti. Nel frattempo Germanico, varcato il Visurgi, venne a sapere da un disertore che Arminio avrebbe attaccato l’accampamento di notte; perciò schierò l’esercito a battaglia nel campo e quando questi attaccarono vennero respinti. Il giorno seguente, Arminio, incalzato da Germanico, accettò di combattere in campo aperto, nella piana di Idistaviso, collocata tra il fiume Visurgi e le colline; i germani avevano una fitta foresta alle loro spalle. Era il 16 d.C.

Germanico dispose l’esercito seguendo l’ordine di marcia, con in prima linea gli ausiliari galli e germani, poi gli arcieri, quattro legioni, due coorti di pretoriani con ai fianchi la cavalleria, poi altre quattro legioni e infine la fanteria leggera e gli arcieri a cavallo e le altre coorti ausiliarie. In questo modo, adottando uno schieramento simmetrico, i romani avrebbero potuto respingere un attacco da ogni direzione. I cherusci furono i primi ad attaccare, lanciandosi dai colli. Germanico ordinò alla cavalleria di attaccarli sul fianco e a Stertino di lanciare l’attacco alle spalle, mentre lui sarebbe giunto per chiuderli in una morsa. I germani, non reggendo l’urto delle legioni, si diedero immediatamente alla fuga, mentre Arminio urlava per tentare di fermarli. Combatté come un leone ma alla fine fu costretto a fuggire, dopo essersi imbrattato il viso di sangue per non essere riconosciuto.

Il vallo Angrivariano

La guerra però non era ancora conclusa. Arminio, fuggito, riorganizzò le forze e si spostò più a nord, dove fece erigere un enorme fortificazione, il vallo Angrivariano, che bloccava la strada ai romani tra le palude e le foreste della Germania, per attaccarli in modo simile a Teutoburgo. Ma Germanico non era Varo:

«Quella vista suscitò ira e dolore nei Germani più che i caduti, le ferite, il massacro. Coloro che poco prima si accingevano ad abbandonare le loro sedi e ritirarsi al di là dell’Elba, ora vogliono combattere, danno di piglio alle armi e tutti, i notabili e il popolo, i vecchi e i giovani, improvvisamente si avventano su le schiere romane, vi gettano lo scompiglio. Alla fine scelgono una località chiusa tra il fiume e le foreste, una pianura umida e angusta; tutt’attorno, una palude profonda, tranne che dal lato dove gli Angrivari avevano innalzato un largo argine, per separarsi dai Cherusci. Qui si fermò la fanteria; la cavalleria invece si nascose nei boschi vicini per prendere alle spalle le legioni penetrate nella selva. Di questi accorgimenti nulla sfuggiva a Cesare: i piani, le posizioni, sia visibili sia occulti, conosceva ogni cosa e si preparava a volgere a loro danno le astuzie del nemico. Al legato Seio Tuberone affida la cavalleria e la pianura; e dispone la schiera dei fanti in modo che una parte penetrasse nella foresta dove l’accesso era in piano, un’altra parte cercasse di salire su l’argine. Tenne per sé l’aspetto più arduo dell’impresa, lasciò il resto ai luogotenenti. Quelli che avevano avuto in sorte il terreno in piano, avanzarono senza difficoltà; ma quelli che dovevano scalare il terrapieno, quasi si arrampicassero su un muro, subivano gravi colpi dall’alto.»

TACITO, ANNALI, II, 19-20

Germanico conosceva ogni mossa del nemico, a differenza di Varo, e aveva deciso di marciare in assetto da battaglia, pronto a combattere sul posto. Il fronte si preparò a prendere il terrapieno anche con l’uso di macchine d’assedio, mentre le coorti pretorie respingevano i nemici che venivano dalla foresta e la cavalleria, tenuta al centro nella pianura, colpiva duramente dove necessario; in piano i romani nn ebbero alcuna difficoltà, ne incontrarono di più soprattutto lungo la fortificazione, difesa strenuamente. Germanico fece avanzare arcieri e frombolieri e macchine d’assedio. Alla fine il terrapieno fu preso, mentre i barbari, costretti tra i romani e la palude venivano massacrati senza alcuna pietà. Il comandante romano si tolse l’elmo per farsi riconoscere nella mischia e implorava i romani di non avere alcuna pietà. Fu una carneficina:

«Il comandante si rese conto che la battaglia da vicino era impari e quindi distanziò un poco le legioni, e dette ordine ai frombolieri e ai lanciatori di pietre di scagliare i proiettili e gettare lo scompiglio nelle schiere nemiche. Dalle macchine di guerra furono lanciati giavellotti e i difensori dell’argine quanto più erano in vista da tante più ferite erano sbalzati giù. Occupato il terrapieno, Cesare per il primo con le coorti pretorie si lanciò verso le foreste; qui lo scontro fu corpo a corpo. Il nemico era chiuso alle spalle dalla palude, i Romani dal fiume e dai monti: sia gli uni sia gli altri dovevano combattere sul luogo, senza altra speranza che il valore, altro scampo che vincere. Non era inferiore l’animo dei Germani, ma si trovavano in condizione d’inferiorità per il genere del combattimento e delle armi: stretti in così gran numero in luoghi angusti, non riuscivano né a protendere né a ritirare le loro lunghissime aste, né a valersi della propria agilità e rapidità, ma erano costretti a combattere sul posto; i nostri, al contrario, con lo scudo aderente al petto e la mano stretta all’impugnatura della spada, trafiggevano le membra imponenti dei barbari e i loro volti scoperti e si aprivano il passo massacrando i nemici, mentre Arminio ormai dopo tante prove senza sosta non aveva più lo stesso ardore o forse lo indeboliva la recente ferita. Mentre a Inguiomero, che sembrava volasse lungo tutta la schiera, mancava la fortuna più che il valore. E Germanico per farsi riconoscere meglio s’era tolto l’elmo dal capo e pregava i suoi di insistere nel massacro: non c’era bisogno di prigionieri, solo lo sterminio di quel popolo avrebbe messo fine alla guerra. Solo al calar della sera ritirò dal combattimento una legione affinché allestisse l’accampamento; tutte le altre fino a notte si saziarono del sangue nemico. I cavalieri combatterono con esito incerto. Nell’allocuzione, Cesare espresse i suoi elogi ai vincitori; poi, eresse un trofeo d’armi con una iscrizione superba: «Debellati i popoli tra il Reno e l’Elba, l’esercito di Tiberio Cesare ha consacrato questo monumento a Giove, a Marte e ad Augusto». Di sé nulla aggiunse, per timore dell’invidia e perché riteneva bastasse la coscienza di ciò che aveva fatto. Sùbito dopo affidò a Stertinio la campagna contro gli Angrivari, a meno che non si affrettassero ad arrendersi; e quelli supplici nulla ricusarono e ottennero il perdono.»

venerdì 23 ottobre 2020

Pazza di Roma Leggende romane GLI ANGELI DI CASTELLO

GLI ANGELI DI CASTELLO 
La presenza della statua dell’Angelo in cima all’ex fortezza papale è legata a un’antica leggenda che prende le mosse alla fine del VI secolo, quando Roma e l’Italia tutta stavano attraversando un periodo drammatico. Erano anni oscuri e tristi in cui sembrava che il destino avesse deciso di accanirsi una volta per tutte contro la penisola. Oltre alle stragi compiute dai Longobardi, ci si erano messe pure le devastazioni causate dalla furia delle calamità naturali. A dire di Paolo Diacono “si abbatterono sul Veneto, sulla Liguria e su altre regioni italiane piogge torrenziali: dal tempo di Noè non si ricordava un diluvio simile”. Il Tevere, nel 589, registrò una piena di tale violenza che scoppiò un’atroce epidemia di peste che decimò la città, mietendo tra le illustri vittime anche papa Pelagio II. Di fronte a un simile scenario Gregorio Magno, designato a succedere al soglio pontificio, esortò i fedeli alla preghiera e alla penitenza e organizzò una grande processione di tre giorni alla quale parteciparono tutti coloro che ancora si reggevano in piedi. Si trattò, più che altro, di un corteo funebre sulle strade di una Roma moribonda, con la peste “che falciava gli uomini facendoli stramazzare al suolo senza vita”. Come racconta Gregorovius: “ma all’improvviso una visione soprannaturale pose termine alle litanie e al contagio. Mentre Gregorio, alla testa della processione, attraversava il ponte che conduce a San Pietro, il popolo vide librarsi nell’aria, sopra la Mole Adriana, l’arcangelo Michele che, davanti agli occhi attoniti dei fedeli, rinfoderò la sua spada fiammeggiante come per significare che la pestilenza era finita”. Così Roma ebbe finalmente pace e quello che era nato come il Mausoleo di Adriano, divenne per tutti Castel Sant’Angelo. Che si sappia, però, la statua a ricordo del prodigio fu posta solo nel XIII secolo e da quel momento, peraltro, non ebbe mai vita facile: quello che vediamo oggi, infatti, è solo l’ultima di una lunga e sfortunata serie di statue di angeli che si sono succedute sullo spalto del Castello. Si dice che la prima, collocatavi anteriormente il 1277, fosse fatta di legno e comprensibilmente resistette poco alle intemperie. La seconda venne distrutta nel 1379 durante un assalto alla fortezza. Alla terza andò ancora peggio. L’aveva voluta in marmo con alcune parti metalliche Nicolò V e durò neanche un cinquantennio. Il 29 ottobre 1497, annotava il cerimoniere pontificio Giovanni Burckardt “verso l’ora XIV una folgore, oppure un tuono, con un colpo solo bruciò la torre superiore e principale di Castel Sant’Angelo; le polveri che stavano lassù per la munizione del detto castello scoppiarono, per cui tutta la parte superiore della torre comprese le mura e il grossissimo angelo marmoreo furono totalmente e a grande distanza scagliati…” La sfortuna dell’angelo successivo fu quella di essere stato forgiato in bronzo: si ritrovò così immolato durante il sacco di Roma del 1527, fuso, senza troppi complimenti, per poterne trarre cannoni e per come andarono le cose, il sacrificio risultò anche vano. Arriviamo così a Paolo III, che nel 1544 affidò a Raffaello di Montelupo l’incarico di eseguirne uno nuovo, marmoreo e di grandi dimensioni, terminato e innalzato alla fine dello stesso anno. Non gli andò poi così male perché lì vi rimase per oltre due secoli. La sua carriera finì per vecchiaia e un po’ per colpa del castellano Giovanni Costanzo Caracciolo Santobono, che convinse papa Benedetto XIV a sostituirlo con uno meno acciaccato. Dal 1752 è “collocato a riposo” nel cosiddetto Cortile dell’Angelo ed è impossibile non notarlo per chi sta salendo sulla terrazza. Terrazza attualmente dominata dall’angelo bronzeo di Pietro Verschaffelt, finora il più longevo del Castello. Anche se è un record che si è guadagnato non senza fatica. Rischiò di brutto, infatti, durante l’invasione del 1798, quando gli invasori francesi lo dipinsero a sfregio con i colori repubblicani bianco, rosso e azzurro; inoltre “gli posero in testa la berretta rossa e fu dichiarato per il Genio della Francia liberatore di Roma”. Da tempo ha ormai riacquisito la giusta dignità e con la sua mole svella trionfante e rassicurante sulla città.
(Gabriella Serio – Curiosità e segreti di Roma)



Focus (Prima della Cina: una piramide di 4.000 anni fa)

Prima della Cina: una piramide di 4.000 anni fa

Oltre 2.000 anni prima che il Primo Imperatore sognasse la Cina, c'era una potente e sanguinaria civiltà capace di costruire piramidi enormi.

shimao
Il sito archeologico di Shimao: 2.000 anni prima della Cina, della Grande Muraglia e del Primo Imperatore, questo era un centro di potere.  | 

Una città di 4.300 anni, con al centro un'imponente piramide a gradoni alta almeno 70 metri, scoperta in Cina anni fa, è al centro dell'attenzione di un gruppo internazionale di archeologi, che sta portando alla luce una storia del tutto inattesa - riportati su Antiquity. La piramide era decorata con "occhi" simbolici e facce "antropomorfe", in parte umane e in parte animali. Quelle figure «potrebbero aver dotato la piramide a gradoni di uno speciale potere religioso, per rafforzare ulteriormente la sensazione di potenza che esercitava sulle persone», scrivono gli archeologi nell'articolo.

 

Per cinque secoli attorno alla piramide prosperò una grande città, che si estendeva per circa 400 ettari: 4 km quadrati, cosa che all'epoca ne faceva una grande metropoli. Oggi quella città è chiamata Shimao, ma il suo vero nome è sconosciuto. Fino a poco tempo fa si pensava che Shimao fosse parte della Grande Muraglia (costruita poco più di 2.000 anni fa) e solo recentemente ci si è resi conto che è più antica e che ha una sua storia ancora da decifrare.

 

Il Primo Imperatore: perché ha costruito la Grande Muraglia?

 

Shimao, piramidi, Cina, Grande Muraglia, sacrifici umani
Egitto, Perù, Antartide... Viaggio tra le altre piramidi

LA PIRAMIDE E LE FORTIFICAZIONI. La piramide mostra 11 ampi gradoni pavimentati in pietra. Sul gradone più alto «c'erano palazzi costruiti in terra battuta, con pilastri in legno e ricoperti con tegole, e una gigantesca riserva d'acqua», scrivono gli archeologi. Tutte le persone di potere vivevano a quel livello, e tutto ciò che serviva loro era prodotto nelle immediate vicinanze: «Il complesso non funzionava solo come spazio residenziale dell'élite di governo di Shimao, ma anche da area di produzione per tutto ciò che serviva all'élite stessa».

 

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Una serie di muri in pietra, con bastioni e porte, circondava la piramide e la città, e all'ingresso della piramide c'erano raffinate mura difensive il cui design suggerisce che erano destinate a fornire sia difesa sia un accesso molto limitato alle persone.

 

GIADA E TESTE MOZZATE. In prossimità della porta esterna orientale sono stati trovati sei pozzi contenenti teste umane decapitate: alcune delle vittime potrebbero non essere originarie della città ma provenire da un altro sito a nord di Shimao: «L'analisi dei resti umani suggerisce che le vittime potrebbero essere originarie di Zhukaigou, forse portati a Shimao come prigionieri». Le ricerche sul campo hanno rivelato artefatti in giada inseriti negli spazi tra i blocchi di pietra di tutte le strutture di Shimao: questi manufatti in giada e i sacrifici umani "impregnavano" di forza la piramide? Il lavoro di archeologi e antropologi a Shimao è appena iniziato.

La leggenda di Amedeo Guillet, il “comandante diavolo ”Grazie a “Amanti della storia”

La leggenda di Amedeo Guillet, il “comandante diavolo”

E’ stato un uomo dai mille volti: ufficiale, agente segreto, ambasciatore, stalliere, acquaiolo, scaricatore di porto ma, soprattutto, guerrigliero. Un personaggio camaleontico, imprevedibile e temerario che cambia identità, patria e lingua. Nacque a Piacenza nel febbraio 1909 da una nobile famiglia piemontese e capuana di origine sabauda, frequentando poi l’Accademia militare di Modena. Uscirà con il grado di sottotenente di Cavalleria del Regio Esercito Italiano.

La sua straordinaria storia comincia in Africa orientale prima della seconda guerra mondiale quando, giovane tenente, cattura una pericolosissima banda di guerriglieri fedeli al Negus. Da Roma riceve l’ordine di giustiziarli, ma quando vede i volti fieri di quei nemici non solo decide di non ucciderli ma propone loro di arruolarsi nei suoi reparti. Il duca d’Aosta copre questa sua decisione e propone inoltre di creare un’intera cavalleria indigena, agile e di impatto, al seguito di Amedeo Guillet.

Questi nel giro di due mesi organizza e costituisce la nuova formazione, il “Gruppo Bande Amhara a cavallo” formata da combattenti diversissimi per etnia e religione e che soltanto un grande conoscitore di uomini come lui può tenere uniti. Ma mentre sta completando l’addestramento il 10 giugno del ’40 l’Italia entra in guerra e in Africa la situazione si fa subito difficile: gli Inglesi penetrano velocemente in Libia.

All’inizio del ’41 l’avanzata dell’esercito inglese sta ormai travolgendo le truppe italiane. Guillet per difendere il fronte italiano è pronto a tutto: gli viene chiesto di usare i suoi reparti per rallentare l’avanzata britannica e dare tempo agli Italiani di organizzarsi. E lui compie un’azione inaspettata, geniale ma spericolata: decide di attaccare il nemico a cavallo nel bel mezzo dello schieramento, contando sul fatto che mitragliatrici e artiglieria nemica non avrebbero potuto sparare per non colpire la loro stessa fanteria.

Dopo ore di confusione 10mila soldati italiani si erano ormai salvati sulle montagne grazie ad un’azione ricordata ancora oggi come una delle pagine più valorose della storia militare italiana. Guillet viene ricordato come il comandante che ha guidato una cavalleria contro i carri armati, e ha vinto. Coraggioso, sprezzante del pericolo, fedele agli alleati e rispettoso del nemico. Nell’immaginario collettivo diventa il “Comandante Diavolo” ( Cummundar as-Sheitan) e dal quel momento inizia la sua leggenda.

Dopo la firma della resa, secondo il diritto internazionale, non si può continuare a combattere ma Guillet ha in mente una strategia precisa: sfiancare il nemico e fargli credere che gli Italiani sono ancora vivi ed in grado di impegnarli. Entra in clandestinità, è’ costretto a nascondersi, a camuffare la sua identità. Smessa l’uniforme indossa il turbante e il tipico abbigliamento indigeno, diventa Ahmed Abdallah al Redai ( foto a sinistra) aiutato in questa trasformazione anche dai suoi tratti mediterranei e dalla conoscenza perfetta della lingua araba.

Il suo cambiamento non è solo esteriore: inizia a pregare 5 volte al giorno, a vivere nella comunità musulmana in modo completamente mimetico. Non è più un Italiano, non è più un ufficiale, non è più un cattolico. È un indigeno tra gli indigeni: la sua figura ricorda per certi versi quella di Lawrence d’Arabia. Con la differenza che questi aveva dietro di sé un impero che lo sosteneva. Nascosto dietro la nuova identità inizia, con i suoi indigeni, una guerriglia senza quartiere contro gli Inglesi, sabotando ferrovie, tagliando linee telegrafiche, facendo saltare ponti e saccheggiando depositi militari. Le azioni della banda inizialmente vengono considerate opera di fuorilegge locali, di banditi del deserto.

Ma con il tempo si intuisce che dietro a tutto ciò c’è un disegno preciso, quello di Amedeo Guillet e subito sulle sue gesta cala il velo della censura. Diventa oggetto di un rapporto top secret dell’ intelligence inglese che inoltre fissa sulla sua testa una cospicua taglia. Ma non serve. E talmente abile che, per meglio spiare il nemico, riesce a servire a tavola degli ufficiali inglesi sotto le finte spoglie di un domestico indigeno.

Nella primavera del ’41, dopo la disfatta italiana il Negus Haile Selassie torna in Etiopia e con l’aiuto degli Inglesi cerca di annettere anche l’Eritrea. Dall’altra parte però Guillet riesce ad attrarre alla sua causa proprio gli Eritrei facendo leva sui loro sentimenti anti-etiopici e mettendoli in guardia sul pericolo che gli inglesi possono rappresentare per loro.

Alla fine del ’41 arriva nel porto di Hodeida nello Yemen ma per i suoi modi raffinati e la lingua gli Yemeniti lo scambiano per una spia britannica e lo incarcerano. Appena a conoscenza del fatto gli Inglesi chiedono la sua estradizione cosa che però insospettisce molto gli Yemeniti. Il sovrano quindi gli concede udienza e ascolta tutta la sua storia. Ne rimane talmente affascinato che gli propone di rimanere, prendendolo sotto la sua protezione.

Lo fa curare, gli dà una casa e uno stipendio da colonnello. Quando nel ’42 gli Inglesi mettono a disposizione una nave della Croce Rossa per tutti quegli Italiani desiderosi di tornare in patria, Guillet, aiutato dai suoi vecchi amici del porto, riesce a imbarcarsi furtivamente rimanendo quasi nascosto per tutto il viaggio fingendosi pazzo.
Promosso Maggiore per meriti di guerra le sue conoscenze linguistiche lo rendono perfetto per il lavoro di intelligence.

Nel Dopoguerra, Guillet inizia a la carriera diplomatica, che prosegue per quasi trent’anni e che lo vede diventare ambasciatore d’Italia in vari Paesi. A seguirli sono sua moglie e la sua fortuna: sopravvive a due incidenti aerei nello stesso giorno e a due colpi di Stato di cui è testimone in Yemen e in Marocco. In quest’ultimo paese, durante un ricevimento ufficiale, ci fu un tentativo di colpo di Stato e Guillet riuscì a salvare la vita all’ambasciatore tedesco. Questo gli valse la più alta onorificenza della Repubblica Federale Tedesca: la Gran Croce con stella e striscia dell’Ordine al Merito della Repubblica. Nel 1971 fu inviato come Ambasciatore d’Italia in India, entrando ben presto nel ristrettissimo entourage dei confidenti del Primo Ministro Indira Gandhi.

Nel 1975 è in pensione per raggiunti limiti di età e va a vivere in Irlanda. Se in Italia in pochi conoscono la sua storia, in Irlanda viene accolto con grande entusiasmo e ritrova anche i suoi vecchi nemici anglosassoni che non avevano mai nascosto la propria ammirazione per lui, Max Harari, maggiore dell’VIII Ussari che riuscì a rapirgli il cavallo bianco Sandor, e Vittorio Dan Segre. Quest’ultimo diventa il suo biografo.

Alle già innumerevoli medaglie ed onorificenze ricevute, nel novembre del 2000 il Capo dello Stato italiano Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito la massima onorificenza di ‘Cavaliere di Gran Croce’. Amedeo Guillet muore a Roma il 16 giugno 2010, all’età di 101 anni. Le sue ceneri riposano a Capua.

 


mercoledì 21 ottobre 2020

Osiris-Rex, i cinque secondi che fecero la storia

IL TOUCH-AND-GO ALLE 00:12 ORA ITALIANA

Osiris-Rex, i cinque secondi che fecero la storia

La manovra “touch and go” di Osiris-Rex sull’asteroide Bennu – mirata alla raccolta di almeno 60 grammi di polvere superficiale per il successivo rientro a Terra – si è conclusa con successo. Obiettivo centrato per questa missione epocale, la prima dopo le missioni Apollo a portare sulla Terra un quantitativo così cospicuo di polvere extraterrestre e – diversamente dalle missioni Hayabusa, ad esempio – a saperne misurare la massa raccolta in situ

       21/10/2020

Serie di immagini – catturate nell’arco di 10 minuti durante la prima prova dell’evento di raccolta campioni della missione Osiris-Rex – che mostra il campo visivo dello strumento SamCam mentre la navicella si avvicina e si allontana dalla superficie dell’asteroide Bennu. Il braccio di campionamento della navicella spaziale (Tagsam) è visibile al centro dell’immagine. Crediti: Nasa/Goddard/University of Arizona

21 ottobre 2020, ore 00:12.

Era da poco passata la mezzanotte in Italia – le sei di sera alla Nasa, un orario indefinito fuori dall’atmosfera, nel silenzioso e oscuro spazio interplanetario a più di 331 milioni di km dalla Terra – quando la sonda Osiris-Rex ha realizzato l’impresa mai compiuta prima dalla Nasa: raccogliere frammenti d’asteroide da riportare sulla Terra. La manovra touch and go – nome in codice Tag, letteralmente “tocca e vai”, procedura di raccolta del campione della durata di soli 5 secondi, per questo non si può parlare di un vero e proprio atterraggio – è avvenuta con successo, dopo un avvicinamento durato giorni e un rischioso atterraggio nel cratere Nightingale – “usignolo”, il più sicuro e scientificamente interessante fra i piccoli e sassosi crateri di Bennu.

Bennu, è questo il nome dell’asteroide Neo carbonaceo primordiale di tipo B obiettivo della missione della Nasa. Prima d’ora – prima di Osiris-Rex – un oggetto simile non era mai stato osservato nel dettaglio. Si ritiene che Bennu sia un “avanzo” sopravvissuto di tutti quegli asteroidi che hanno bombardato la Terra durante la sua formazione – asteroidi che, assieme alle comete, sono stati dei veri e propri mattoni primordiali che hanno portato acqua e composti organici sulla Terra durante la sua formazione.

https://twitter.com/OSIRISREx/status/1318676256032985088

Una missione epocale quella di Osiris-Rex, partita nel lontano 8 settembre 2016 e in orbita attorno all’asteroide di 500 metri di diametro dal 3 dicembre 2018. Un obiettivo tanto ambizioso quanto rapido: prelevare da un minimo di 60 grammi a un massimo di quasi due chili di regolite da riportare qui sulla Terra avendo a disposizione circa 5 secondi di contatto con il suolo dell’asteroide, e dovendo gestire una serie di complesse e delicatissime operazioni in totale autonomia. «Un segnale impiega 18 minuti e 42 secondi per coprire la distanza che separa la sonda dalla Terra, un tempo troppo lungo per poter manovrare gli strumenti in tempo reale», osserva infatti John Robert Brucato, astrofisico dell’Inaf di Firenze, esperto di esobiologia e Sample and Contamination Control Scientist della missione.

Autonomia garantita da “sensi” d’eccezione. Anzitutto la vista, grazie a un “occhio” di nome SamCam: una camera in grado di scattare immagini precise del punto di raccolta – da confrontare con le mappe superficiali per riconoscere esattamente il campione raccolto – e del meccanismo di campionamento a procedura avvenuta, poiché le due altre camere a bordo della navicella sono fuori fuoco a queste distanze dalla superficie.

Questa vista del sito primario di campionamento Nightingale sull’asteroide Bennu è un mosaico di 345 immagini raccolte dalla navicella spaziale Osiris-Rex della Nasa il 3 marzo. L’immagine è sovrapposta a una rappresentazione della navicella spaziale per illustrare il punto di atterraggio. Crediti: Nasa / Goddard / University of Arizona

Durante la procedura di campionamento, della durata complessiva di quattro ore e mezza, la navicella ha effettuato tre manovre separate per raggiungere la superficie dell’asteroide. La sequenza di discesa è iniziata con l’accensione dei propulsori per consentire a Osiris-Rex di abbandonare l’orbita di sicurezza attorno a Bennu – a un’altezza di circa 770 metri dalla sua superficie. Dopo aver viaggiato quattro ore su questa traiettoria discendente, la navicella spaziale ha eseguito la manovra “Checkpoint” a un’altitudine approssimativa di 125 m sopra il sito di raccolta Nightingale, per regolare la posizione e la velocità e scendere ripidamente – ma seguendo una traiettoria sicura – verso la superficie. Circa 11 minuti dopo, quando in Italia scoccava la mezzanotte, la navicella spaziale ha effettuato la manovra di “Matchpoint” a un’altitudine approssimativa di 54 m: è questa l’ultima volta che Osiris-Rex ha potuto accendere i razzi per correggere la sua traiettoria. Da questo momento in poi la navicella ha proseguito in caduta libera verso la superficie con una velocità verticale di 10 cm/s fino ad avvenuto contatto con il sito di raccolta.

«In questo modo si evita di contaminare la superficie con i gas di scarico del propellente usato per le manovre», spiega Brucato. «Una volta lasciato Bennu, una piccola camera osserva l’interno del sistema di raccolta (Tagsam) per verificare la presenza di materiale. Inoltre, il braccio che regge il Tagsam viene prima esteso per la sua intera lunghezza e poi piegato. Nel giro di un paio di giorni i sensori di bordo misureranno l’inerzia di Tagsam valutando così la massa del campione raccolto. Se la quantità di campione raccolto fosse inferiore a 60 grammi la Nasa deciderà – insieme al team scientifico – se fare un secondo tentativo di raccolta».

https://twitter.com/OSIRISREx/status/1318676604193832966

Questo secondo Tag avverrebbe non prima di gennaio 2021 su un secondo sito di atterraggio di nome Osprey. È importante che si verifichi in un sito diverso dal primo, perché essendo l’asteroide costituito da materiale incoerente, durante il primo tentativo di raccolta la morfologia è stata modificata profondamente perdendo i riferimenti superficiali a lungo studiati e utilizzati per poter atterrare in sicurezza. La scelta dei siti di atterraggio, poi, è stata essa stessa una sfida inaspettata. Il campo da calcio sabbioso che si pensava di trovare su Bennu si è rivelato, all’occhio più vicino e attento delle camere di Osiris-Rex, un insidioso ed eterogeneo alternarsi di piccoli crateri e massi di dimensioni variabili – luogo del tutto inospitale per una raccolta campioni come quella progettata.

https://twitter.com/OSIRISREx/status/1316822056428859405

«Le insidie nell’utilizzo di uno strumento come Tagsam per la raccolta di materiale dall’asteroide sono diverse e riguardano la conformazione dell’asteroide da un lato, la metodologia impiegata dall’altro», dice Maurizio Pajola, ricercatore dell’Inaf di Padova attivamente coinvolto nella procedura di selezione del sito di atterraggio di Osiris-Rex e nel lavoro di conteggio e catalogazione dei massi per taglia. La testa cilindrica di Tagsam – con il suo diametro esterno totale di 40 cm, interno di 25 cm – è pensata infatti per aderire completamente al suolo. «La riuscita del campionamento – anche in termini quantitativi – dipende dall’efficienza con la quale l’azoto sotto pressione sparato verso il suolo agita, solleva e cattura il materiale superficiale. Se la testa cilindrica di questa aspirapolvere al contrario si posa su una superficie piana e polverosa, l’efficienza del sistema è massima e l’azoto della bombola viene interamente impiegato nel creare turbolenza e indirizzare il materiale verso il collettore. Diversamente, parte del gas viene disperso sollevando polvere circostante».

Mappa del sito Nightingale che indica il numero e la posizione dei massi presenti nella regione. I massi di 10-21 cm sono contrassegnati in giallo, quelli più grandi di 21 cm in rosso. Le rocce e i detriti ingeriti dalla testa del Meccanismo di campionamento Tagsam non devono essere larghi più di 2 cm.
Crediti: NASA/Goddard/University of Arizona

Una seconda criticità, spiega inoltre Pajola, è costituita dalla dimensione dei massi raccolti: Tagsam è progettato per accogliere materiale di diametro inferiore a due centimetri. «È quindi fondamentale atterrare in un sito in cui, statisticamente, la composizione superficiale è polverosa e priva di sassi con dimensioni superiori a questo valore limite. Purtroppo però, il campionamento in taglia dei massi ha rivelato che la superficie è costellata di materiale di dimensioni superiori – che intaserebbero e bloccherebbero l’ingresso al sito di raccolta.»

Gli scienziati, comunque – previdenti nonostante gli imprevisti – hanno pensato a un sistema per raccogliere un po’ di materiale anche con il solo contatto superficiale: dei dischetti di velcro metallico che si sporcano della polvere superficiale di Bennu intrappolandola.

«Il sito in cui è avvenuto il prelievo, il cratere Nightingale, si trova vicino al polo nord, all’interno di un cratere di circa 20m di diametro e sembra composto da diversi materiali tra i quali minerali ricchi di carbonio», conclude Elisabetta Dotto, ricercatrice dell’inaf di Roma, membro anch’ella del team scientifico di Osiris-Rex. L’eterogeneità superficiale di Bennu, sottolinea infatti la scienziata, non è solo una complicazione ingegneristica, ma costituisce una ricchezza e un potenziale scientifico unico – frutto della storia passata dell’asteroide e della sua composizione primordiale. «Vista la sua latitudine, la temperatura è piuttosto bassa e l’escursione termica è ridotta. Per questa ragione – e per il fatto che il cratere nel quale si trova è molto probabilmente piuttosto recente – si ritiene che il materiale organico – di interesse astrobiologico – in esso presente sia poco alterato. Il prelievo e il ritorno a Terra di un campione di Bennu è senza dubbio un fatto epocale, che aprirà un nuovo capitolo nella nostra conoscenza del materiale primitivo del Sistema solare e nella comprensione del ruolo che esso può aver svolto nell’innesco della vita sulla Terra».

Guarda l’intervista di Valentina Guglielmo a Giovanni Poggiali dell’Inaf Firenze, membro del team Osiris-Rex:

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