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martedì 20 ottobre 2020

Unlocking the secrets of 'six-headed chief' burial

Unlocking the secrets of 'six-headed chief' burial

Published
4 days ago
Visualisation of skulls found at PortmahomackIMAGE COPYRIGHTUNIVERSITY OF BRADFORD
image captionThe ancient burial site is believed to contain the remains of several generations of the same family

Archaeologists have used DNA analysis to uncover the secrets of a centuries old burial site nicknamed the "six-headed chief".

The grave at Portmahomack in the Highlands contains a man with a fatal sword wound to his skull.

He was buried with four skulls before his grave was later reopened to bury a second man, while a third man was buried in a nearby grave.

Analysis suggests some of the remains to be generations of the same family.

All the remains bar one date to the late 13th to early 15th century. 

Archaeologists said the exception was one of the four skulls which dates to the 8th to 10th century and probably belonged to a Pictish monk.

The six-headed chief burial site was among a number of graves excavated by archaeologists at the site of the medieval Church of St Colman at Portmahomack on Tarbat Ness in Easter Ross.

The burials came at a time of warring between rival clans.


IMAGE COPYRIGHTTARBAT DISCOVERY PROGRAMME
image captionThe burial site contains the remains of five men and a woman
1px transparent line

Since the excavations in 1997, archaeologists from the University of York and FAS Heritage have been trying to shed light on the remains as part of the Tarbat Discovery Programme. 

Historic Environment Scotland supported the new DNA and isotopic analysis of the six-headed chief.

The two men who share the grave are related and archaeologists believe they could have been first cousins once removed.

The four "extra" skulls are of a woman and three men, with one of these men believed to have been a monk whose skull could have been regarded as "prized relic" and was taken from a monastic cemetery on the site.

The two other male skulls were father and son, and in turn, grandfather and father of the second man to be buried in the grave with the first. The woman was this second man's mother.

The third man buried nearby is thought to be the second man's son.

Dr Lisa Brown, of Historic Environment Scotland, said the analysis had helped to provide "an insight into the relationships between individuals in a complex multi-person burial".

She said: "These are techniques that were not available when the excavations first took place."

Calum Thomson, chairman of Tarbat Historic Trust, said: "This exciting development once again confirms the significance of the Tarbat peninsula to Scotland's rich and diverse heritage."

Grave

lunedì 19 ottobre 2020

Riti funebri del Neolitico


Riti funebri del Neolitico

I resti di una doppia sepoltura, rinvenuti in Andalusia, gettano nuova luce sui riti funebri che si celebravano durante il Neolitico Medio spagnolo.

Crani sepolti nella Cueva de la Dehesilla
In foto, i due crani sepolti rinvenuti in Andalusia insieme allo scheletro di una capra.  | UNIVERSIDAD DE SEVILLA

Uno studio pubblicato su Plos One svela i dettagli di un eccezionale ritrovamento avvenuto nel sito archeologico di Cueva de la Dehesilla(grotta di Dehesilla), a Cadice (Spagna). Un gruppo di archeologi dell'Università di Siviglia ha scoperto i resti di un rito funebre avvenuto migliaia di anni fa, durante il periodo Neolitico Medio spagnolo (4800-4000 a.C.): oltre a due crani umani e allo scheletro di una capra (probabilmente offerta in sacrificio), i ricercatori hanno rinvenuto diversi utensili in ceramica e un altare funebre in pietra. «Il sacrificio umano e quello animale potrebbero essere legati a culti ancestrali, rituali propiziatori e preghiere divine durante riti funebri e festività commemorative», spiega Daniel García Rivero, uno degli autori dello studio.

SCENARIO FUNEBRE. I due crani appartengono a un uomo e una donna, quest'ultima più anziana. Gli esperti non sono in grado di affermare con certezza quali siano state le cause della morte dei due: potrebbe essersi trattato di morte naturale o di un sacrificio umano.

 

Il cranio della donna presenta una depressione sull'osso frontale, segno con ogni probabilità di una trapanazione incompleta, e diversi tagli all'osso occipitale, frutto di una decapitazione post-mortem. In un'altra sezione separata da un muro, i ricercatori hanno rinvenuto un altare in pietra con una stele e un focolare, oltre ad alcuni utensili in ceramica, oggetti in pietra e resti di piante bruciate. «Alcuni aspetti dei resti rinvenuti rendono la scoperta eccezionale», spiega García Rivero: «il trattamento del cranio danneggiato e il sacrificio animale sono aspetti finora inediti delle usanze funebri del Neolitico Medio spagnolo.»

DETTAGLI INEDITI. Il V millennio a.C. è il periodo neolitico meno conosciuto per quanto riguarda le popolazioni della penisola iberica. Anche per questo la nuova scoperta è così importante, dal momento che ribalta alcune convinzioni sui rituali funebri dell'epoca. Fino ad ora, infatti, erano state rinvenute solo sepolture singole, e non doppie come questa; inoltre non erano mai state ritrovate strutture in pietra come l'altare. «Questa scoperta è di grande importanza non solo per la sua peculiarità», sostiene García, «ma anche perché rappresenta un deposito rituale sigillato e intatto: una preziosa opportunità di conoscere ulteriori dettagli sulle abitudini rituali e funebri delle popolazioni neolitiche della penisola iberica».

 

STORIE ROMANE ( SPARTACUS)

 

Gladiatore

Libia, I sec. a.C.. Spartaco è uno schiavo tracenelle miniere romane. Un giorno tenta di soccorrere un compagno ferito e ferisce un soldato romano. Volendo fare di lui un esempio, viene fatto legare alle rocce sotto il sole cocente in attesa della morteLentulo Batiato,lanista di Capua, giunto sul posto per comprare degli schiavi, si imbatte in Spartaco, rimanendo colpito dal carattere e dal fisico poderoso. Decide quindi di comprarlo, salvandolo alla morte. Giunto a Capua, Spartaco viene addestrato nella scuola di Batiato come gladiatore.

Un giorno ai migliori allievi viene concessa una donna nella loro cella, e a Spartaco tocca Varinia, una schiava della lontana Britannia. Il trace se ne innamora, e per rispetto nei suoi confronti rifiuta di giacere con lei, disobbedendo agli ordini. Il tempo passa e Spartaco, privato di Varinia, si distingue dai compagni per le sue capacità e la sua forza di carattere. Un giorno giungono alla scuola di gladiatori Marco Licinio Crasso e il suo amico Marco Publio Glabro. Sono importanti senatori e chiedono a Batiato un combattimento a morte tra due coppie di schiavi per festeggiare il matrimonio di Glabro e la sua nomina a capo della guarnigione di Roma, orchestrata dietro le quinte da Crasso, il quale ha corrotto i senatori in modo da ridurre il potere di Sempronio Gracco, l’anziano capo del Senato e del partito della plebe.

Nonostante le prime incertezze di Batiato, secondo cui un duello a morte viola la tradizione di Capua, Crasso offre ventimila sesterzi e ottiene due grandi coppie di gladiatori pronte a uccidersi: tra di essi vi è Spartaco, che viene fatto duellare contro Draba, che al termine del duello ha la meglio sul trace e, anziché uccidere il rivale sconfitto, tenta di togliere la vita agli illustri spettatori, finendo con l’essere trucidato dai romani.

Rivolta

Il giorno dopo, Spartaco scopre che Varinia è stata venduta a Crasso e che si trova già in viaggio per Roma. Dopo un litigio con Marcello (l’addestratore dei gladiatori), Spartaco si ribella, trovando l’appoggio dei compagni, i quali distruggono la scuola e trucidano il presidio romano. Poco dopo, a Roma, il Senato dibatte allarmato sugli sviluppi della situazione: gli schiavi hanno saccheggiato il contado e raso al suolo molti ricchi poderi, tra i quali quelli di alcuni importanti senatori.

Alcuni  propongono di richiamare Pompeo dalla Spagna, ma Gracco, astuto ed esperto politico, sfrutta la situazione per colpire Crasso: propone che Glabro vada a rispondere all’emergenza con sei coorti e che il giovane Caio Giulio Cesare prenda il suo posto. Il Senato accetta.

(GERMANY OUT) identisch mit #161591 Douglas, Kirk *09.12.1916- (Eigentlich Issur Danielowitsch Demsky) Schauspieler, USA - mit Peter Ustinov (r.) in dem Film 'Spartacus', Regie: Stanley Kubrick, USA - 1960 (Photo by ullstein bild/ullstein bild via Getty Images)

Glabro s’incontra con Crasso, che s’infuria, ma sa di non poter rispondere a questa mossa e rifiuta il consiglio dell’amico di marciare su Roma con l’esercito, come fece Silla. Lo prega quindi di lasciare Roma di notte, in silenzio, e di vincere a tutti i costi nel tentativo di rimettere a posto le cose in ambito politico.

Tentativo di fuga

Nel frattempo, Spartacocontinua ad accogliere tra le proprie schiere numerosi schiavi e disperati, e si ricongiunge con Varinia, sfuggita da Batiato. Stabilisce una base inattaccabile sul Vesuvio, dove predispone l’addestramento di una grande armata con cui contrastare i romani e prende contatto con Tigrane Levantino, comandante dei pirati cilici in lotta contro Roma. L’importante ospite, in cambio di cinquanta milioni di sesterzi, gli mette a disposizione l’intera flotta cilicia, fatta di cinquecento navi, in modo da poter permettere la fuga di Spartaco e degli schiavi ribelli.

Glabro viene sconfitto da Spartaco e quest’ultimo continua a razziare il sud della penisola e raccogliere nuove leve. Frattanto, il trace e i suoi raggiungono Metaponto. La notizia sconvolge il Senato e l’aristocrazia romana, tanto che Crasso riemerge dal suo isolamento e fa pressione su Gracco: vuole la nomina a consolee il comando su otto legioni da mandare contro il ribelle.

Spartaco giunge a Brindisi con i cinquanta milioni di sesterzi da consegnare a Tigrane Levantino, il quale però raggiunge l’accampamento sostenendo che Crasso ha pagato di più i pirati per stare lontani dall’Italia. Frattanto, Pompeo e Lucullo stanno raggiungendo Brindisi: il primo dal porto di Reggio Calabria e il secondo, con la flotta, del mare Adriatico. Spartaco intuisce così i piani di Crasso, che lo costringe a marciare su Roma, dove potranno combattere la battaglia finale.

L’inevitabile sconfitta

Così mentre a Brindisi il trace parla ai suoi amici e compagni, annunciando che la battaglia finale è vicina, a Roma, Crasso arringa l’esercito che sta per partire, fiero della sua nomina a console. Dopo aver marciato per alcuni giorni i due eserciti sono accampati la sera nell’alta valle del Sele per la battaglia che si svolgerà il giorno dopo, Crasso incontra Batiato, l’allenatore di Capua caduto in disgrazia, e gli propone un patto: se l’aiuterà a identificare Spartaco, lui sarà l’agente della vendita degli schiavi che sopravviveranno alla battaglia.

Spartacus-0708

Il giorno dopo, la battaglia tra romani e schiavi infuria. Si contano forti perdite in entrambi gli schieramenti ma al tramonto Crasso è il vincitore. Offrendo la vita in salvo a tutti i sopravvissuti se il trace si fosse consegnato (i romani non erano in grado di riconoscerlo, data la fuga di Batiato), Spartaco tenta quindi di rivelare la propria identità, ma tutti i suoi compagni fanno lo stesso, dicendo di essere il vero Spartaco, andando così incontro a morte certa.

Morte di un martire protocristiano

Infuriato, Crasso ordina di crocifiggere tutti gli schiavi lungo la Via Appia, la strada che collega Roma a Capua, e appena ritrova Batiato, lo fa frustare e poi lo caccia via. Tuttavia, a sorpresa, ritrova Varinia con il figlio di Spartaco, appena nato, e decide di portarla a casa sua come trofeo speciale di guerra. Tornato a Roma, Crasso impone la legge marziale e severe restrizioni costituzionali, in nome della salvaguardia della sicurezza e dell’ordine. Redige le liste di dissidenti e nemici della repubblica, arrestando i suoi avversari. Batiato e Gracco s’incontrano e decidono di vendicarsi di Crasso: in giro per Roma si parla dell’amore che il generale prova per Varinia, e in cambio di due milioni di sesterzi, l’ex lanista accetta di rapire Varinia.

Crasso aveva ordinato, dopo averli riconosciuti, di far crocifiggere per ultimi Spartaco e Antonino, un tempo suo schiavo personale. Infine, alle porte di Roma comanda un duello a morte tra i due schiavi, annunciando che il superstite sarà crocifisso. Spartaco e Antonino si affrontano ferocemente perché ciascuno vuole uccidere l’altro per risparmiargli l’agonia della croce ma alla fine vince il trace.

Spartacus-1014

Poco prima dell’alba, Batiato raggiunge la casa di Gracco, che ha predisposto l’atto di liberazioneper Variniae il bambino, e ordina loro di partire per l’Aquitania, dove saranno protetti dal governatore locale, uno dei suoi molti cugini. Subito dopo la loro partenza, Gracco si uccide, pugnalandosi allo stomaco, non volendo sottostare all’autorità di Crasso. Varinia e Batiato lasciano Roma, ma alle porte della città, insieme agli altri schiavi crocifissi, riconoscono Spartaco, che appena prima di morire vede il bambino, apprende che è libero e che vivrà al sicuro, lontano da Roma.

Produzione

La sceneggiatura è di Dalton Trumbo, costretto a scrivere sotto falso nome perché finito, in quanto sospettato di filocomunismo, nel mirino della commissione del senatore McCarthy; fu lo stesso Douglas a volere che lavorasse per questa pellicola e in seguito, fece reinserire il suo vero nome nei titoli. Con l’inserimento del nome di Trumbo nei titoli, s’incrinò per la prima volta la regola non scritta che vietava di far lavorare a Hollywood coloro che fossero finiti nelle liste maccartiste.

Kubrick volle apportare numerose innovazioni alla sceneggiatura per evitare la scontata produzione dell’ennesimo film epico, come per esempio le scene d’amore con Varinia, e dando maggiore spessore alle figure di Licinio Crasso, Sempronio Gracco e Lentulo Batiato, da lui ritenuti gli emblemi dominanti di una società macchinosa e corrotta.

Kubrick fu autore di alcune sequenze certo degne di miglior fama, come per esempio la battaglia finale, per la quale riuscì a rendere in modo eccellente le manovre tattichemanipolari dell’esercito romano. Il regista utilizzò per questa scena – realizzata in una grande pianura nei dintorni di Madrid – 8.000 soldati di fanteria, ottenuti dopo un accordo con l’esercito spagnolo.

Il mito di Spartaco

La scena finale del film è emblematica: questo peplum, a differenza della maggioranza, è ambientato prima della nascita di Cristo. Ma nella crocifissione di Spartaco noi vediamo quella di Cristo; è in tutto e per tutto analoga: Varinia col bambino è una vera e propria Madonna e Spartaco muore in nome di un nobile ideale, come portatore di pace e salvezza per i più deboli.

Tutti questi film riconducono sempre agli stessi filoni dunque; il fatto che Anthony Mann abbia lavorato alla maggior parte dei peplum più importanti è senza dubbio emblematico. Ma è anche vero che chi produceva e scriveva la sceneggiatura di questi film aveva evidentemente in testa un’idea assolutamente certa di come dovevano essere rappresentati i romani (nel peggior modo possibile) e come i loro nemici o comunque avversari (come dei perseguitati sul modello ebraico nella seconda guerra mondiale).

Spartaco divenne, in ogni caso, un mito a partire dall’Ottocento, con l’inizio dei primi movimenti socialisti: tanto che gli venne intitolata, alla fine della prima guerra mondiale, in Germania, la lega di Spartaco, fondata da Rosa Luxemburg. I marxisti vedevano in Spartaco un eroe socialista dell’antichità; peccato che Spartaco non abbia mai espresso la volontà di combattere contro la schiavitù in sè o di abolirla.

Come altre rivolte di schiavi del II-I secolo a.C. (dovute all’afflusso enorme di schiavi in seguito a una repentina espansione di Roma), Spartaco aveva tutt’altro che nobili ideali. Voleva semplicemente saccheggiare e cercare, se possibile, di scappare (Spartaco oltretutto sembrerebbe essere un disertoreausiliario dell’esercito romano, quindi una persona incapace di accettare l’autori

domenica 18 ottobre 2020

I Crupellarii (da Storie Romane)

 STORIE ROMANE

Nel 21 d.C. i legionari romani si trovarono ad affrontare dei ribelli gallici guidati da Giulio Floro e Sacroviro ad Augustodunum (Autun). Tra loro moltissimi erano male armati, ma c’erano anche dei gladiatori completamente corazzati, dalla testa ai piedi, i crupellari: «Vi aggregarono gli schiavi destinati al mestiere di gladiatore, che avevano, secondo la pratica di quella gente, un’armatura completa: li chiamano «Crupellarii», poco adatti a menar colpi, ma impenetrabili a quelli degli avversari.[…] Un po’ di resistenza opposero gli uomini catafratti di ferro, poiché le corazze reggevano ai colpi di lancia e di spada; ma i soldati, impugnati scuri e picconi, come per sfondare una muraglia, facevano a pezzi armature e corpi; alcuni con pertiche e forche abbattevano quelle masse inerti che, prostrate a terra, incapaci d’un minimo sforzo per rialzarsi, erano abbandonate lì come morte.» (TacitoAnnali, III, 43-46)

I gladiatori L’amore dei romani per i gladiatori (il cui nome deriva dalla parola gladius, la spada romana: “portatori di gladio”) divenne viscerale fin dal II secolo a.C., tanto che il poeta Terenzio nel 160 a.C. si vide il pubblico abbandonare la sua commedia Hecyra (“La Suocera”) perché si era sparsa la voce che nei pressi si teneva uno scontro di gladiatori. L’importanza di questi “giochi” (munera) è testimoniata anche dalle molte testimonianze di autori contemporanei nel corso dei secoli, come Cicerone, Orazio, Tito Livio, Seneca, Marziale, Tertulliano e Agostino d’Ippona, a denotare la trasversalità e la continuità di questa usanza. Celebre è anche la ribellione del gladiatore Spartaco, che fu tra gli episodi più traumatici del I secolo a.C. per la repubblica romana e di sicuro la più grande rivolta schiavista di epoca romana.


Gli spettacoli si dividevano in ludi scaenici (teatrali) e ludi circenses (corse di carri), dedicati alle divinità, in date prestabilite; i giochi gladiatori invece erano munera, che in latino significa dovere: era uno spettacolo dovuto da un magistrato o da un privato (editor) al popolo e non in onore degli dei. I gladiatori, che erano schiavi (anche cittadini liberi si potevano dare per un certo periodo in schiavitù), prigionieri di guerra, condannati etc. si addestravano nelle scuole gladiatorie in tutto l’impero, gestite dai lanistae, la cui professione veniva considerata altamente infamante. Sotto Adriano si vietò anche di vendere schiavi a un lanista a meno che non si fossero macchiati di qualche reato.Questi munera, oltre a seguire regole ben precise (c’era sempre un arbitro – chiamato summa rudis e un assistente- a controllare che il combattimento fosse leale e nelle regole, pronto a dividere la coppia con un bastone, più o meno come accade oggi nel pugilato – paragone ancora più calzante se si considera che i gladiatori combattevano a petto nudo), erano regolamentati anche negli armamenti: gli abbinamenti tra armaturae erano sempre gli stessi. 

Le quattro armaturae più diffuse erano: i secutores che affrontavano i reziari e i mirmilloni contro i traci. I reziari, i più particolari in assoluto, erano muniti di una rete e un tridente: se catturavano l’avversario questo non aveva scampo; d’altro canto i secutores erano molto mobili e potevano evitare facilmente la rete. I mirmilloni erano i più corazzati, con uno scudo rettangolare e un pesante elmo che però rendeva difficoltosa la vista; i traci avevano la tipica spada ricurva in punta. L’elmo del secutor era simile a quello del mirmillone, ma era sferico e liscio, per far scivolare la rete e non farla rimanere impigliata. C’erano anche altri tipi di gladiatori, meno diffusi ma non per questo meno particolari: l’oplomaco combatteva come un oplita greco, con scudo rotondo e lancia, e generalmente combatteva con il mirmillone. Il provocator aveva un equipaggiamento simile al mirmillone, ma aveva uno scudo più piccolo e una placca di protezione sul torace. C’erano poi i cavalieri (equites) e gli essedarii (soldati dal carro), ma entrambi combattevano a piedi: i primi con uno scudo tondo, elmo, un pugnale e una tunica (unici gladiatori ad averla); gli essedarii pugnale, scudo ovale ed elmo con paraguance. Provocator, equites e essedarii combattevano in modo simmetrico: sempre contro la loro stessa armatura. Infine faceva la sua comparsa nell’arena il bimachairos (o arbelas), che aveva un’arma offensiva per ogni mano e combatteva generalmente contro il reziario. In epoca repubblicana sono menzionati anche il sannita e il gallo, di cui però non si conosce con esattezza l’equipaggiamento. Gli abbinamenti potevano tuttavia variare: il mirmillone poteva anche combattere col secutor, ad esempio. La lunghezza e la grandezza dell’equipaggiamento inoltre non era standardizzata, come di norma nel mondo antico. Infine, era possibile che ci fossero dei gladiatori scaeva, ossia mancini (cosa impossibile nell’esercito), particolarmente apprezzati da Commodo.

La ribellione

Nel 21 d.C. in Gallia, sotto il principato di Tiberio, scoppiò una violenta sollevazione contro le tasse da pagare (l’imperatore era noto tra l’altro per la sua avarizia), sotto la guida dei romano-galli, di cittadinanza recente, Giulio Floro e Giulio Sacroviro (il nome Giulio indicava una cittadinanza acquisita ai tempi di Cesare Augusto; infatti i loro antenati l’avevano ottenuta come premio per la fedeltà a Roma), il primo capo dei Treviri e il secondo degli Edui. Entrambi fomentavano il popolo gallico contro le tasse romane, la crudeltà del governo romano, facendo leva su un sentimento ricorrente nella storia romana e non. Inoltre, poiché era appena morto Germanico, molto amato in Gallia, esacerbavano ulteriormente i moti di rivolta ricordandone la grandezza. Propugnavano dunque di recuperare la libertà perduta: in poco tempo molti li seguirono nei moti di rivolta. I turoni furono sconfitti da una legione inviata da Visellio Varrone, legato della Germania inferiore; quest’ultimo insieme a Gaio Silio mise insieme un esercito e affrontò i rivoltosi ad Augustudunum (Autun). Silio spazzò via i ribelli, male armati. Tuttavia la sorte non fu felice con lui, poiché nel 24, rientrato a Roma, si suicidò dopo le accuse ricevute (e prima del processo) di essere stato un partigiano dei rivoltosi; infatti purtroppo era stato un partigiano dell’ormai caduto in disgrazia Germanico (sua moglie Sosia Gallia era stretta amica di Agrippina maggiore, moglie di Germanico). Sacroviro invece si suicidò:

“(21. d.C.) Quello stesso anno le città della Gallia, per l’entità dei debiti contratti, tentarono una rivolta, i cui promotori più indomiti furono Giulio Floro dei Treviri e Giulio Sacroviro degli Edui. Erano ambedue di nobile stirpe e per la fedeltà mostrata dai loro antenati dotati della cittadinanza romana, all’epoca in cui la si concedeva di rado e soltanto come premio al valore. In conciliaboli segreti, adunarono i più fieri o quelli che per povertà o per paura si trovavano nella situazione di dover delinquere; si accordarono di sollevare Floro i Belgi, Sacroviro i Galli più vicini. Sia per mezzo di incontri privati sia di adunanze, parlavano della necessità di ribellarsi per l’infierire delle imposte, l’alto prezzo dell’usura, la crudeltà e l’arroganza dei governatori; affermavano che tra le truppe, da quando avevano appreso la morte di Germanico, serpeggiava il malcontento; che era il momento opportuno per recuperare la libertà, se si considerava che il loro paese era florido mentre l’Italia era povera, imbelle la plebe dell’Urbe e solo valido nell’esercito il nerbo straniero. Quasi non vi fu città che rimanesse indenne da quei germi di rivolta; i primi a insorgere furono gli Andecavi, poi i Turoni, ma vennero domati dal legato Acilio Aviola, che fece venire una coorte da Lione, dove si trovava il presidio. I Turoni furono battuti da una legione mandata da Visellio Varrone, legato della Germania Inferiore, al comando dello stesso Aviola e di alcuni primati Galli, i quali prestarono aiuto al fine di nascondere la propria defezione e dichiararla in seguito. Persino Sacroviro si fece vedere a capo scoperto incitare a combattere a favore dei Romani, per dar prova, diceva, del suo valore. I prigionieri, però, riferirono che s’era esposto per farsi riconoscere e non esser colpito dai dardi. Tiberio, consultato su questo fatto, non si curò dell’accusa; e la sua indecisione alimentò la guerra. Frattanto Floro persisteva nei suoi progetti e incitava un’ala di cavalleria, formata di reclute arruolate a Treviri e addestrate secondo la nostra disciplina, a massacrare i mercanti romani e dar inizio alla guerra. Pochi cavalieri furono corrotti, la maggior parte però rimase al suo posto. La massa degli indebitati e dei clienti invece prese le armi e cercava di portarsi sulle alture chiamate Ardenne, quando le legioni appartenenti ai due eserciti, che Visellio e C. Silio avevano fatto avanzare da sentieri opposti, li fermarono. Quella moltitudine disordinata fu dispersa da Giulio Indo che fu mandato avanti con un corpo scelto; era della stessa città di Floro ma contrario a lui e per questo più bramoso di dimostrare le sue capacità. Floro sfuggì ai vincitori nascondendosi in luoghi segreti, ma quando s’accorse che i soldati erano appostati davanti a tutte le uscite, si uccise. E fu la fine della rivolta dei Treviri. La ribellione degli Edui fu più grave, poiché la popolazione era più ricca e il presidio in grado di soffocarla si trovava più lontano. Sacroviro aveva occupato la capitale Augustodunum con coorti armate, per aggregare i figli delle famiglie più nobili delle Gallie, che risiedevano nella città per compiere gli studi e per mezzo di essi, tenuti come ostaggi, assicurarsi l’appoggio dei genitori e dei parenti; subito distribuì ai giovani armi fabbricate segretamente. Erano quarantamila, la quinta parte dei quali armata come i nostri legionari, gli altri con spiedi e coltelli e con le frecce usate dai cacciatori. Si aggregarono a loro schiavi destinati a diventare gladiatori, tutti coperti di ferro, come usa da loro. Li chiamano grupellari e non sono molto abili nel colpire, ma invulnerabili ai colpi. Queste forze erano avvantaggiate dal consenso non ancora esplicito delle città vicine e dall’aperta simpatia dei singoli, nonché dalla discordia dei comandanti romani, tra i quali si disputava su chi avrebbe comandato le operazioni. Finì che Varrone, invalido per l’età, cedette il comando a Silio, che era nel fiore degli anni. A Roma intanto correva voce che non soltanto gli Edui e i Treviri ma sessantaquattro città galliche s’erano liberate, che avevano indotto i Germani a unirsi a loro, che le Spagne erano infide, tutte notizie che, come sempre avviene, venivano credute più gravi del vero. I migliori si affliggevano per amore della repubblica, molti invece per insofferenza del presente e desiderio di cambiamenti si rallegravano, anche se ne andava della loro sicurezza; e se la prendevano con Tiberio, il quale, in simili frangenti, consumava le sue energie a leggere le denunce degli accusatori. Che forse anche Sacroviro sarebbe stato denunciato al Senato per il reato di lesa maestà? esistevano finalmente uomini che sapevano fermare con le armi quelle lettere sanguinarie. Una pace così miserabile tanto valeva cambiarla, fosse pure con una guerra. Tiberio con tanto maggiore impegno si mostrava imperturbabile, non cambiava la sua residenza né appariva preoccupato, e in quei giorni si comportò come il solito o per grandezza d’animo o perché era in possesso di notizie sicure che la situazione era tollerabile e meno grave di quanto si diceva. Intanto Silio mosse alla testa di due legioni, precedute da una schiera di ausiliari; devastò i villaggi dei Sequani, che si trovavano al confine ultimo del territorio, attigui agli Edui e loro alleati in armi. Poi si diresse su Augustodunum a marce rapide, con i signiferi in gara tra di loro; e anche i soldati semplici, frementi d’impazienza, rifiutavano il riposo consueto e le soste notturne: che guardassero in faccia i nemici e fossero visti da loro, era sufficiente per vincere. A dodici miglia dalla città, apparve con le sue truppe Sacroviro in campo aperto. Aveva collocato all’avanguardia gli uomini coperti di ferro, ai lati le coorti, alla retroguardia quelli semi inermi. Egli, in mezzo ai capi, avanzava su uno splendido cavallo, rammentava le antiche glorie dei Galli e tutte le sconfitte che avevano inflitte ai Romani; quanto sarebbe stata onorevole la libertà ai vincitori, e intollerabile ai vinti subire per la seconda volta la schiavitù. Ma non parlò a lungo né a uomini di buon animo; poiché si avvicinavano le legioni in formazione di battaglia e quei cittadini raccogliticci, inesperti di guerra, non avevano più né occhi per guardare né orecchie per ascoltare. Silio al contrario, benché la speranza che si era ripromessa lo dispensasse dall’incitare i suoi, tuttavia andava gridando che era vergognoso per loro, che avevano sconfitto i Germani, marciare ora contro i Galli come se si fosse trattato di veri nemici. Recentemente una sola coorte è stata sufficiente per vincere i ribelli Turoni, un’ala per i Treviri, e poche squadre di questo stesso esercito hanno sbaragliato i Sequani. Ora sconfiggete gli Edui, quanto più ricchi e avvezzi a gozzovigliare, tanto più imbelli, e risparmiate quelli che scappano. A queste parole si levò un grido altissimo, la cavalleria accerchiò il nemico, la fanteria lo aggredì frontalmente e ai fianchi non vi fu resistenza. Gli uomini vestiti di ferro procurarono qualche indugio, perché coperti di lastre resistevano alle aste e alle spade; ma i soldati impugnarono scuri e picconi, quasi dovessero abbattere un muro e così spaccarono corazze e corpi, altri con pertiche e forconi gettavano a terra quelle moli inerti; e li lasciavano lì distesi, come cadaveri, senza che facessero il minimo sforzo per alzarsi. Sacroviro prima si rifugiò ad Augustodunum, poi, temendo la resa della città, si diresse verso una fattoria non lontana, con pochi fedelissimi. Qui si tolse la vita e gli altri si uccisero a vicenda; la casa, incendiata dal tetto, fu il loro rogo. Allora finalmente Tiberio comunicò al Senato per lettera che la guerra era incominciata e conclusa. Non tolse né aggiunse nulla alla verità, ma disse che la vittoria si doveva al merito dei legati, fedeli e valorosi, e alle sue direttive. Spiegò poi per quale ragione non si erano recati sul posto delle operazioni né lui né Druso; magnificò la grandezza dell’impero, tale che non sarebbe stato dignitoso per i principi partire per la sollevazione di uno o due popoli e lasciare la città dalla quale si dipartiva il governo del mondo. Ora che non si poteva attribuire a paura, sarebbe partito per controllare personalmente la situazione e ristabilire l’ordine. I senatori decretarono voti per il suo ritorno, rendimenti di grazie ed altre cerimonie. Solo Cornelio Dolabella, per superare gli altri, si spinse a un’adulazione forsennata: propose che, al ritorno di Tiberio dalla Campania, fosse accolto con l’ovazione. Arrivò subito una seconda lettera di Cesare nella quale dichiarava che, dopo aver soggiogato in gioventù genti ferocissime e aver accettato e rifiutato tanti trionfi, non si riteneva così sprovvisto di gloria da aver bisogno, ora che era vecchio, del futile premio d’una passeggiata nei dintorni di Roma.”

TACITO, ANNALI, III, 40-47

La prima guerra macedonica (Leggende Romane)

La prima guerra macedonica La seconda guerra punica fu la prima grande guerra mondiale del Mediterraneo, che coinvolse moltissimi stati. Non...