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giovedì 12 novembre 2020

Il secondo viaggio di Paolo

Il secondo viaggio di Paolo

Fonte:
CulturaCattolica.it

Raffaello, San Paolo davanti al Console

Il secondo viaggio (At 15, 36-18, 22) durerà circa 3 anni, tra il 49 e il 52 d. C.. Sul punto di ripartire, i due apostoli si separano: Paolo si rifiuta di portare con sé Marco, che salpa con Barnaba alla volta di Cipro e altrove (forse anche in Italia settentrionale). Invece Saulo, insieme a Sila, torna in Asia Minore, a vedere come stanno le Chiese fondate nel primo viaggio. Ma, lungo questo secondo itinerario, l’Apostolo delle genti avrà modo di incontrare un altro mondo, quello greco-romano.
Listri si aggrega Timoteo, di padre greco e che sarà tanto caro a Paolo. Docili allo Spirito, dopo aver attraversato la Frigia ed evangelizzato la Galazia, rinunciano ad entrare nella provincia di Asia e della Bitinia, costeggiano la Misia e scendono a Troade, nel nord-ovest della attuale Turchia. Qui Paolo ha la visione notturna del Macedone che lo supplica: «Passa in Macedonia e aiutaci!». Così Paolo si sente chiamato a mettere piede sul suolo d’Europa (cf At 16, 9s).
Quindi si dirigono verso Samotracia e Neapoli; di qui a Filippi, colonia romana ormai città latina del primo distretto della provincia macedone. Battezzano Lidia, commerciante di porpora incontrata durante una riunione di preghiera lungo il fiume, e ne accettano l’ospitaltà. Ma vengono bastonati e incarcerati, in seguito alla denuncia fatta da una schiava indovina (e dei suoi padroni), i cui guadagni la loro predicazione aveva messo in pericolo. Nottetempo, li libera dalle catene un terremoto. Temendo la punizione da parte dei magistrati, il disperato carceriere tenta il suicidio; ma Paolo lo dissuade e lo battezza con tutta la famiglia. Saputo poi che Paolo e Sila sono cittadini romani, le autorità li rimettono in libertà (cf At 16, 11-40). Lì crescerà una bella comunità cristiana, a cui l’Apostolo invierà da un’altra prigione la lettera della gioia e dell’affetto, quella appunto ai Filippesi.
Da qui giungono a Tessalonica, dove convertono non pochi Greci. Colti da gelosia, i giudei li denunciano presso le autorità pagane, coinvolgendo pure Giasone, che li aveva ospitati. I missionari sono fatti partire di notte per Berea, centro portuale della Macedonia. Qui si ripete ciò che era accaduto a Tessalonica: conversioni ancor più numerose e ostilità fomentate da fanatici giunti da Tessalonica. Paolo allora viene accompagnato ad Atene, dove attende a lungo la nave che porta Sila e Timoteo.
Per quanto devastata dai romani nel 146 a. C., Atene era pur sempre la capitale della sapienza, dell’arte e della democrazia, anche senza lo splendore dei secoli V e IV a. C.. Paolo non perde tempo: ogni giorno discute con i pagani in sinagoga e con i passanti sulle piazze. I filosofi epicurei e stoici, incuriositi, lo invitano sull’Areopago, perché questo ciarlatano si spieghi meglio. È qui che Luca mette in bocca a Paolo il magistrale annuncio di Cristo Risorto ai pensatori politeisti di Atene (cf At 17, 11-33). Se ne parlerà più avanti.
Lo scarso successo non scoraggia Paolo, che percorre i 50 Km che lo portano a Corinto, capitale della provincia romana dell’Acaia, ancora più cosmopolita e corrotta di Atene. Nella numerosa comunità giudaica del luogo, trova ospitalità presso i coniugi cristiani Aquila e Priscilla, provenienti da Roma, da dove nel 49-50 d. C. l’imperatore Claudio aveva allontanato tutti i Giudei. Sono anch’essi fabbricanti di tende e Paolo può lavorare con loro (cf At 18, 1-3).
Sopraggiunti Sila e Timoteo, danno inizio alla predicazione, rifiutata dai giudei, ma accolta dal capo della sinagoga Crispo e famiglia; la accolgono pure i pagani ben disposti, tra i quali un certo Tizio Giusto. Un’altra visione lo incoraggia a «non tacere, perché Io ho un popolo numeroso in questa città» (At 18, 10). Da qui scrive le due lettere ai Tessalonicesi.
Così Paolo si ferma un anno e mezzo, tra l’inverno del 50 e l’estate del 52 d. C.. Verso la fine del soggiorno a Corinto, i giudei riescono ancora a trascinarlo in tribunale, ma il pro-console Gallione lo lascia libero, rifiutandosi di trattare le loro questioni religiose; ne va di mezzo lo stesso capo sinagoga Sostene, addirittura percosso dalla sua gente (cf At 18, 12-17).
Quindi, in compagnia di Aquila e Priscilla, s’imbarca per la Siria e giunge di nuovo a Efeso, da cui riparte troppo presto per Cesarea. Ha quindi modo di «salutare la Chiesa di Gerusalemme» per poi raggiungere Antiochia. Ben presto, però, riparte per confermare nella fede «tutti i discepoli della Galazia e della Frigia» (cf At 18, 18-22).

lunedì 9 novembre 2020

Domenico Mazzocchi (Civita Castellana, 8 novembre 1592

Domenico Mazzocchi (Civita Castellana, 8 novembre 1592 batt. – Roma, 21 gennaio 1665) è stato un compositore italiano del periodo barocco, autore di mottetti, madrigali, opere e oratori.
Fu al servizio di potenti aristocratici, come il cardinale Ippolito Aldobrandini, la famiglia Borghese, il cardinale Odoardo Farnese e il cardinale Maffeo Barberini, poi eletto al soglio pontificio col nome di Urbano VIII.
Mazzocchi fu il primo ad usare il semitono enarmonico ed i segni del crescere, del diminuire, del piano e del forte, adottati ben presto da tutti i compositori di musica sacra.
Il fratello minore, Virgilio Mazzocchi, fu per qualche tempo suo allievo ed ebbe una brillantissima carriera musicale.


domenica 25 ottobre 2020

La battaglia del Vallo Angrivariano da (storie Romane)

Dopo la fine delle guerre civili, Augusto aveva espanso l’impero nei territori dei barbariNorico, Pannonia, Illirico. Tra il 12 a.C. e il 9 d.C., dopo una campagna militare ventennale la Germania tra il Reno e l’Elba era considerata dai romani come una nuova provincia acquisita. L’obiettivo era probabilmente quello di ridurre notevolmente la linea di confine, rendendolo più facile da difendere: per questo venne inviato prima Marco Vipsanio Agrippa e poi Druso Maggiore e Tiberio, che presero possesso della nuova provincia. A governare la regione, nel 7 d.C., venne inviato Publio Quintilio Varo, esperto senatore già governatore della Siria, ma che tuttavia si trovava ad amministrare la provincia forse con eccessiva durezza, considerando i germani pienamente sottomessi quando ancora non lo erano del tutto.  

« I soldati romani si trovavano là [in Germania] a svernare, e delle città stavano per essere fondate, mentre i barbari si stavano adattando al nuovo tenore di vita, frequentavano le piazze e si ritrovavano pacificamente […] non avevano tuttavia dimenticato i loro antichi costumi […] ma perdevano per strada progressivamente le loro tradizioni […] ma quando Varo assunse il comando dell’esercito che si trovava in Germania […] li forzò ad adeguarsi ad un cambiamento troppo violento, imponendo loro ordini come se si rivolgesse a degli schiavi e costringendoli ad una tassazione esagerata, come accade per gli stati sottomessi. I Germani non tollerarono questa situazione, poiché i loro capi miravano a ripristinare l’antico e tradizionale stato di cose, mentre i loro popoli preferivano i precedenti ordinamenti al dominio di un popolo straniero. »

CASSIO DIONE, STORIA ROMANA, LVI,18
Teutoburgo

Nel 9 d.C., non sappiamo per quale motivo, Arminio decise di tradire Varo e di cacciare i romani, ergendosi a capo delle tribù germaniche. Forse Arminio credeva nella libertà del suo popolo, forse voleva solo ottenere il potere (che non avrebbe mai ottenuto a Roma nella sua misura maggiore non potendo diventare senatore e quindi non potendo neanche comandare forze legionarie), fatto sta che segretamente organizzò una sollevazione di tribù germaniche. Alla notizia della ribellione, mentre Varo si preparava a ritirarsi nei quartieri invernali sopraggiungendo la fine dell’estate, Arminio convinse Varo a muoversi immediatamente con le sue tre legioni a reprimere la rivolta, di cui tuttavia forniva informazioni errate. Riuscì infine a persuadere Varo a intraprendere una strada estremamente pericolosa, all’interno delle foreste germaniche, per attaccare i ribelli. Non sappiamo perché Varo accettò sempre le parole di Arminio come vere, ma sicuramente si fidava di lui senza esitazioni.

Arminio finse una ribellione, proprio quando i romani stavano per ritornare negli accampamenti invernali. Il governatore romano era stato avvisato della congiura ma non vi prestò attenzione:

« […] Segeste, un uomo di quel popolo [i Cherusci] rimasto fedele ai Romani, insisteva che i congiurati venissero incatenati. Ma il fato aveva preso il sopravvento ed aveva offuscato l’intelligenza di Varo […] egli riteneva che tale manifestazione di fedeltà nei suoi riguardi [da parte di Arminio] fosse una prova delle sue qualità […] »

« [Varo] pose la sua fiducia su entrambi [Arminio ed il padre Sigimero], e poiché non si aspettava nessuna aggressione, non solo non credette a tutti quelli che sospettavano del tradimento e che lo invitavano a guardarsi alle spalle, anzi li rimproverò per aver creato un inutile clima di tensione e di aver calunniato i Germani […] »

VELLEIO PATERCOLO, STORIA ROMANA, II, 118; CASSIO DIONE COCCEIANO, STORIA ROMANA, LVI, 19

Varo, accompagnato da Arminio, marciò verso ovest, ma fu costretto a mutare il percorso, finendo nella foresta di Teutoburgo, esattamente dove voleva il cavaliere cherusco, che era consapevole di non poter battere i romani in campo aperto. La colonna romana, distesa su molti chilometri e formata da tre legioni e diversi reparti ausiliari, venne attaccata puntualmente e ripetutamente, senza che i romani potessero opporre una vera e propria resistenza, non potendosi schierare a battaglia.

Tuttavia, nonostante questo, i romani resistettero per tre giorni. Alla fine del primo giorno, sebbene le perdite fossero numerose, Varo riuscì ad accamparsi su un’altura.Ma i romani erano ormai accerchiati e nel mezzo della foresta: durante il secondo giorno Varo tentò di portare l’esercito fuori dalla selva, dopo aver abbandonato tutto meno che l’indispensabile e tentato di serrare i ranghi. I romani però non riuscivano a dispiegare i reparti nella foresta e finivano per darsi fastidio a vicenda mentre i germani li attaccavano. Il terzo giorno fu la fine: ripreso a piovere copiosamente e decimati, i romani furono attaccati senza tregua. Varo si tolse la vita, mentre i sopravvissuti che avevano quasi raggiunto l’uscita della foresta furono quasi del tutto massacrati dai germani.

Tre legioni (la XVII, XVIII e XIX) furono sterminate e mai più ricostruite. Quando la notizia giunse a Roma Augusto perse completamente la testa, sia per la rabbia sia per il timore di un’invasione germanica. Narra Svetonio che Augusto prendesse a testate il muro gridando contro Varo:

« Quando giunse la notizia […] dicono che Augusto si mostrasse così avvilito da lasciarsi crescere la barba ed i capelli, sbattendo, di tanto in tanto, la testa contro le porte e gridando: “Varo rendimi le mie legioni!”. Dicono anche che considerò l’anniversario di quella disfatta come un giorno di lutto e tristezza. »

SVETONIO, AUGUSTO, 23

Idistaviso

I germani si avventarono sui sopravvissuti, torturandoli e massacrandoli, tanto da rendere poi difficoltoso il riconoscimento dei morti quando Germanico li trovò alcuni anni dopo:

«La crudeltà dei nemici germani aveva fatto a pezzi il cadavere, quasi completamente carbonizzato, di Varo, e la sua testa, una volta tagliata, fu portata a Maroboduo, il quale la inviò a Tiberio Cesare, perché fosse seppellita con onore […] Poiché i Germani sfogavano la loro crudeltà sui prigionieri romani, Caldo Celio [caduto prigioniero], un giovane degno della nobiltà della sua famiglia, compì un gesto straordinario. Afferrate le catene che lo tenevano legato, se le diede sulla testa con tale violenza da morire velocemente per la fuoriuscita di copioso sangue e delle cervella […]»

«[…] nulla di più cruento di quel massacro fra le paludi e nelle foreste […] ad alcuni soldati romani strapparono gli occhi, ad altri tagliarono le mani, di uno fu cucita la bocca dopo avergli tagliato la lingua […]»

«[Germanico giunse sul luogo della battaglia, ove] nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa ammucchiate e disperse […] sparsi intorno […] sui tronchi degli alberi erano conficcati teschi umani. Nei vicini boschi sacri si vedevano altari su cui i Germani avevano sacrificato i tribuni ed i principali centurioni […]»

VELLEIO PATERCOLO, STORIA ROMANA II, 119-20
FLORO, EPITOME DE T. LIVIO BELLORUM OMNIUM ANNORUM DCC LIBRI DUO, II, 36-37
TACITO, ANNALI, I, 61

Tiberio aveva deciso di seguire gli insegnamenti di Augusto e quindi di non espandere la frontiera, ma di mantenere il limes. Perciò, dopo un suo primo intervento tra il 10 e 11 d.C., volto a prevenire invasioni come quelle dei cimbri e dei teutoni un secolo prima, una volta diventato imperatore nel 14, fu il nipote Germanico (figlio di suo fratello Druso maggiore) a terminare l’opera. Si trovava infatti in Gallia a raccogliere i dati del censimento voluto da Augusto quando seppe della morte di quest’ultimo. Mossosi a sedare la rivolta delle legioni germaniche dopo la notizia della morte del principe, colse l’occasione per intraprendere una campagna contro i germani.

La campagna di Germanico procedeva bene e decise di passare all’attacco, attraversando il Reno nella zona occupata dei batavi, andando incontro alle forze che avevano messo insieme i barbari dell’ex cavaliere romano. Prima della battaglia Arminio chiese di parlare col fratello Flavo, che combatteva ancora per i romani. L’incontro, approvato da Germanico, si fece in riva al fiume, che li separava:

«Tra i Romani e i Cherusci scorreva il fiume Visurgi. Arminio con gli altri capi si fermò su la riva e domandò se Cesare era giunto. Gli fu risposto che era già lì; allora pregò che gli fosse consentito un colloquio con il fratello. Questi, di nome Flavio, militava nel nostro esercito ed era noto per la sua lealtà. Pochi anni prima, mentre combatteva agli ordini di Tiberio, per una ferita aveva perduto un occhio. Ricevuta l’autorizzazione, si fa avanti e Arminio lo saluta; poi fa allontanare la scorta e chiede che vadano via anche gli arcieri, schierati lungo la riva. Non appena se ne furono andati, Arminio domanda al fratello come mai ha uno sfregio sul volto. Questi allora gli riferisce il luogo e la battaglia dove è avvenuto e Arminio gli chiede quale compenso abbia ricevuto; Flavio gli comunica l’aumento di stipendio, il bracciale, la corona e le altre decorazioni militari ottenute; e Arminio schernisce la grama mercede avuta per essere schiavo. A questo punto si mettono ad altercare uno contro l’altro: uno esalta la grandezza di Roma, la potenza dell’imperatore, le gravi pene inflitte ai vinti, la clemenza accordata agli arresi; e gli assicura che sua moglie e suo figlio non sono trattati da nemici. L’altro ricorda la santità della patria, la libertà avita, gli dèi tutelari della Germania e la madre, che si unisce alle sue preghiere; e lo ammonisce a non disertare, a non tradire i suoi. Poco a poco scesero alle ingiurie e poco mancò che si azzuffassero e neppure il fiume che scorreva tra loro avrebbe costituito un ostacolo, se non fosse accorso Stertinio a calmare Flavio, il quale, infuriato, chiedeva armi e un cavallo. Sull’altra riva si scorgeva Arminio che in atteggiamento minaccioso ci sfidava a battaglia; nel suo parlare frammischiava parecchi vocaboli in latino, poiché aveva militato negli accampamenti romani come comandante dei suoi connazionali.»

TACITO, ANNALES II, 9-10

Cariovaldo, capo dei batavi, alleati dei romani, una volta attraversato il fiume, si lanciò all’inseguimento dei cherusci, senza sospettare un’imboscata: infatti erano fuggiti dalla pianura per evitare lo scontro in campo aperto. L’attacco a sorpresa riuscì e i batavi si diedero alla fuga, senza successo, poiché ormai erano circondati. Tentarono di sfondare l’accerchiamento, ma Cariovaldo fu colpito e i batavi si salvarono solo grazie all’intervento della cavalleria di Stertino, che misero in salvo i sopravvissuti. Nel frattempo Germanico, varcato il Visurgi, venne a sapere da un disertore che Arminio avrebbe attaccato l’accampamento di notte; perciò schierò l’esercito a battaglia nel campo e quando questi attaccarono vennero respinti. Il giorno seguente, Arminio, incalzato da Germanico, accettò di combattere in campo aperto, nella piana di Idistaviso, collocata tra il fiume Visurgi e le colline; i germani avevano una fitta foresta alle loro spalle. Era il 16 d.C.

Germanico dispose l’esercito seguendo l’ordine di marcia, con in prima linea gli ausiliari galli e germani, poi gli arcieri, quattro legioni, due coorti di pretoriani con ai fianchi la cavalleria, poi altre quattro legioni e infine la fanteria leggera e gli arcieri a cavallo e le altre coorti ausiliarie. In questo modo, adottando uno schieramento simmetrico, i romani avrebbero potuto respingere un attacco da ogni direzione. I cherusci furono i primi ad attaccare, lanciandosi dai colli. Germanico ordinò alla cavalleria di attaccarli sul fianco e a Stertino di lanciare l’attacco alle spalle, mentre lui sarebbe giunto per chiuderli in una morsa. I germani, non reggendo l’urto delle legioni, si diedero immediatamente alla fuga, mentre Arminio urlava per tentare di fermarli. Combatté come un leone ma alla fine fu costretto a fuggire, dopo essersi imbrattato il viso di sangue per non essere riconosciuto.

Il vallo Angrivariano

La guerra però non era ancora conclusa. Arminio, fuggito, riorganizzò le forze e si spostò più a nord, dove fece erigere un enorme fortificazione, il vallo Angrivariano, che bloccava la strada ai romani tra le palude e le foreste della Germania, per attaccarli in modo simile a Teutoburgo. Ma Germanico non era Varo:

«Quella vista suscitò ira e dolore nei Germani più che i caduti, le ferite, il massacro. Coloro che poco prima si accingevano ad abbandonare le loro sedi e ritirarsi al di là dell’Elba, ora vogliono combattere, danno di piglio alle armi e tutti, i notabili e il popolo, i vecchi e i giovani, improvvisamente si avventano su le schiere romane, vi gettano lo scompiglio. Alla fine scelgono una località chiusa tra il fiume e le foreste, una pianura umida e angusta; tutt’attorno, una palude profonda, tranne che dal lato dove gli Angrivari avevano innalzato un largo argine, per separarsi dai Cherusci. Qui si fermò la fanteria; la cavalleria invece si nascose nei boschi vicini per prendere alle spalle le legioni penetrate nella selva. Di questi accorgimenti nulla sfuggiva a Cesare: i piani, le posizioni, sia visibili sia occulti, conosceva ogni cosa e si preparava a volgere a loro danno le astuzie del nemico. Al legato Seio Tuberone affida la cavalleria e la pianura; e dispone la schiera dei fanti in modo che una parte penetrasse nella foresta dove l’accesso era in piano, un’altra parte cercasse di salire su l’argine. Tenne per sé l’aspetto più arduo dell’impresa, lasciò il resto ai luogotenenti. Quelli che avevano avuto in sorte il terreno in piano, avanzarono senza difficoltà; ma quelli che dovevano scalare il terrapieno, quasi si arrampicassero su un muro, subivano gravi colpi dall’alto.»

TACITO, ANNALI, II, 19-20

Germanico conosceva ogni mossa del nemico, a differenza di Varo, e aveva deciso di marciare in assetto da battaglia, pronto a combattere sul posto. Il fronte si preparò a prendere il terrapieno anche con l’uso di macchine d’assedio, mentre le coorti pretorie respingevano i nemici che venivano dalla foresta e la cavalleria, tenuta al centro nella pianura, colpiva duramente dove necessario; in piano i romani nn ebbero alcuna difficoltà, ne incontrarono di più soprattutto lungo la fortificazione, difesa strenuamente. Germanico fece avanzare arcieri e frombolieri e macchine d’assedio. Alla fine il terrapieno fu preso, mentre i barbari, costretti tra i romani e la palude venivano massacrati senza alcuna pietà. Il comandante romano si tolse l’elmo per farsi riconoscere nella mischia e implorava i romani di non avere alcuna pietà. Fu una carneficina:

«Il comandante si rese conto che la battaglia da vicino era impari e quindi distanziò un poco le legioni, e dette ordine ai frombolieri e ai lanciatori di pietre di scagliare i proiettili e gettare lo scompiglio nelle schiere nemiche. Dalle macchine di guerra furono lanciati giavellotti e i difensori dell’argine quanto più erano in vista da tante più ferite erano sbalzati giù. Occupato il terrapieno, Cesare per il primo con le coorti pretorie si lanciò verso le foreste; qui lo scontro fu corpo a corpo. Il nemico era chiuso alle spalle dalla palude, i Romani dal fiume e dai monti: sia gli uni sia gli altri dovevano combattere sul luogo, senza altra speranza che il valore, altro scampo che vincere. Non era inferiore l’animo dei Germani, ma si trovavano in condizione d’inferiorità per il genere del combattimento e delle armi: stretti in così gran numero in luoghi angusti, non riuscivano né a protendere né a ritirare le loro lunghissime aste, né a valersi della propria agilità e rapidità, ma erano costretti a combattere sul posto; i nostri, al contrario, con lo scudo aderente al petto e la mano stretta all’impugnatura della spada, trafiggevano le membra imponenti dei barbari e i loro volti scoperti e si aprivano il passo massacrando i nemici, mentre Arminio ormai dopo tante prove senza sosta non aveva più lo stesso ardore o forse lo indeboliva la recente ferita. Mentre a Inguiomero, che sembrava volasse lungo tutta la schiera, mancava la fortuna più che il valore. E Germanico per farsi riconoscere meglio s’era tolto l’elmo dal capo e pregava i suoi di insistere nel massacro: non c’era bisogno di prigionieri, solo lo sterminio di quel popolo avrebbe messo fine alla guerra. Solo al calar della sera ritirò dal combattimento una legione affinché allestisse l’accampamento; tutte le altre fino a notte si saziarono del sangue nemico. I cavalieri combatterono con esito incerto. Nell’allocuzione, Cesare espresse i suoi elogi ai vincitori; poi, eresse un trofeo d’armi con una iscrizione superba: «Debellati i popoli tra il Reno e l’Elba, l’esercito di Tiberio Cesare ha consacrato questo monumento a Giove, a Marte e ad Augusto». Di sé nulla aggiunse, per timore dell’invidia e perché riteneva bastasse la coscienza di ciò che aveva fatto. Sùbito dopo affidò a Stertinio la campagna contro gli Angrivari, a meno che non si affrettassero ad arrendersi; e quelli supplici nulla ricusarono e ottennero il perdono.»

venerdì 23 ottobre 2020

Pazza di Roma Leggende romane GLI ANGELI DI CASTELLO

GLI ANGELI DI CASTELLO 
La presenza della statua dell’Angelo in cima all’ex fortezza papale è legata a un’antica leggenda che prende le mosse alla fine del VI secolo, quando Roma e l’Italia tutta stavano attraversando un periodo drammatico. Erano anni oscuri e tristi in cui sembrava che il destino avesse deciso di accanirsi una volta per tutte contro la penisola. Oltre alle stragi compiute dai Longobardi, ci si erano messe pure le devastazioni causate dalla furia delle calamità naturali. A dire di Paolo Diacono “si abbatterono sul Veneto, sulla Liguria e su altre regioni italiane piogge torrenziali: dal tempo di Noè non si ricordava un diluvio simile”. Il Tevere, nel 589, registrò una piena di tale violenza che scoppiò un’atroce epidemia di peste che decimò la città, mietendo tra le illustri vittime anche papa Pelagio II. Di fronte a un simile scenario Gregorio Magno, designato a succedere al soglio pontificio, esortò i fedeli alla preghiera e alla penitenza e organizzò una grande processione di tre giorni alla quale parteciparono tutti coloro che ancora si reggevano in piedi. Si trattò, più che altro, di un corteo funebre sulle strade di una Roma moribonda, con la peste “che falciava gli uomini facendoli stramazzare al suolo senza vita”. Come racconta Gregorovius: “ma all’improvviso una visione soprannaturale pose termine alle litanie e al contagio. Mentre Gregorio, alla testa della processione, attraversava il ponte che conduce a San Pietro, il popolo vide librarsi nell’aria, sopra la Mole Adriana, l’arcangelo Michele che, davanti agli occhi attoniti dei fedeli, rinfoderò la sua spada fiammeggiante come per significare che la pestilenza era finita”. Così Roma ebbe finalmente pace e quello che era nato come il Mausoleo di Adriano, divenne per tutti Castel Sant’Angelo. Che si sappia, però, la statua a ricordo del prodigio fu posta solo nel XIII secolo e da quel momento, peraltro, non ebbe mai vita facile: quello che vediamo oggi, infatti, è solo l’ultima di una lunga e sfortunata serie di statue di angeli che si sono succedute sullo spalto del Castello. Si dice che la prima, collocatavi anteriormente il 1277, fosse fatta di legno e comprensibilmente resistette poco alle intemperie. La seconda venne distrutta nel 1379 durante un assalto alla fortezza. Alla terza andò ancora peggio. L’aveva voluta in marmo con alcune parti metalliche Nicolò V e durò neanche un cinquantennio. Il 29 ottobre 1497, annotava il cerimoniere pontificio Giovanni Burckardt “verso l’ora XIV una folgore, oppure un tuono, con un colpo solo bruciò la torre superiore e principale di Castel Sant’Angelo; le polveri che stavano lassù per la munizione del detto castello scoppiarono, per cui tutta la parte superiore della torre comprese le mura e il grossissimo angelo marmoreo furono totalmente e a grande distanza scagliati…” La sfortuna dell’angelo successivo fu quella di essere stato forgiato in bronzo: si ritrovò così immolato durante il sacco di Roma del 1527, fuso, senza troppi complimenti, per poterne trarre cannoni e per come andarono le cose, il sacrificio risultò anche vano. Arriviamo così a Paolo III, che nel 1544 affidò a Raffaello di Montelupo l’incarico di eseguirne uno nuovo, marmoreo e di grandi dimensioni, terminato e innalzato alla fine dello stesso anno. Non gli andò poi così male perché lì vi rimase per oltre due secoli. La sua carriera finì per vecchiaia e un po’ per colpa del castellano Giovanni Costanzo Caracciolo Santobono, che convinse papa Benedetto XIV a sostituirlo con uno meno acciaccato. Dal 1752 è “collocato a riposo” nel cosiddetto Cortile dell’Angelo ed è impossibile non notarlo per chi sta salendo sulla terrazza. Terrazza attualmente dominata dall’angelo bronzeo di Pietro Verschaffelt, finora il più longevo del Castello. Anche se è un record che si è guadagnato non senza fatica. Rischiò di brutto, infatti, durante l’invasione del 1798, quando gli invasori francesi lo dipinsero a sfregio con i colori repubblicani bianco, rosso e azzurro; inoltre “gli posero in testa la berretta rossa e fu dichiarato per il Genio della Francia liberatore di Roma”. Da tempo ha ormai riacquisito la giusta dignità e con la sua mole svella trionfante e rassicurante sulla città.
(Gabriella Serio – Curiosità e segreti di Roma)



Focus (Prima della Cina: una piramide di 4.000 anni fa)

Prima della Cina: una piramide di 4.000 anni fa

Oltre 2.000 anni prima che il Primo Imperatore sognasse la Cina, c'era una potente e sanguinaria civiltà capace di costruire piramidi enormi.

shimao
Il sito archeologico di Shimao: 2.000 anni prima della Cina, della Grande Muraglia e del Primo Imperatore, questo era un centro di potere.  | 

Una città di 4.300 anni, con al centro un'imponente piramide a gradoni alta almeno 70 metri, scoperta in Cina anni fa, è al centro dell'attenzione di un gruppo internazionale di archeologi, che sta portando alla luce una storia del tutto inattesa - riportati su Antiquity. La piramide era decorata con "occhi" simbolici e facce "antropomorfe", in parte umane e in parte animali. Quelle figure «potrebbero aver dotato la piramide a gradoni di uno speciale potere religioso, per rafforzare ulteriormente la sensazione di potenza che esercitava sulle persone», scrivono gli archeologi nell'articolo.

 

Per cinque secoli attorno alla piramide prosperò una grande città, che si estendeva per circa 400 ettari: 4 km quadrati, cosa che all'epoca ne faceva una grande metropoli. Oggi quella città è chiamata Shimao, ma il suo vero nome è sconosciuto. Fino a poco tempo fa si pensava che Shimao fosse parte della Grande Muraglia (costruita poco più di 2.000 anni fa) e solo recentemente ci si è resi conto che è più antica e che ha una sua storia ancora da decifrare.

 

Il Primo Imperatore: perché ha costruito la Grande Muraglia?

 

Shimao, piramidi, Cina, Grande Muraglia, sacrifici umani
Egitto, Perù, Antartide... Viaggio tra le altre piramidi

LA PIRAMIDE E LE FORTIFICAZIONI. La piramide mostra 11 ampi gradoni pavimentati in pietra. Sul gradone più alto «c'erano palazzi costruiti in terra battuta, con pilastri in legno e ricoperti con tegole, e una gigantesca riserva d'acqua», scrivono gli archeologi. Tutte le persone di potere vivevano a quel livello, e tutto ciò che serviva loro era prodotto nelle immediate vicinanze: «Il complesso non funzionava solo come spazio residenziale dell'élite di governo di Shimao, ma anche da area di produzione per tutto ciò che serviva all'élite stessa».

 

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Una serie di muri in pietra, con bastioni e porte, circondava la piramide e la città, e all'ingresso della piramide c'erano raffinate mura difensive il cui design suggerisce che erano destinate a fornire sia difesa sia un accesso molto limitato alle persone.

 

GIADA E TESTE MOZZATE. In prossimità della porta esterna orientale sono stati trovati sei pozzi contenenti teste umane decapitate: alcune delle vittime potrebbero non essere originarie della città ma provenire da un altro sito a nord di Shimao: «L'analisi dei resti umani suggerisce che le vittime potrebbero essere originarie di Zhukaigou, forse portati a Shimao come prigionieri». Le ricerche sul campo hanno rivelato artefatti in giada inseriti negli spazi tra i blocchi di pietra di tutte le strutture di Shimao: questi manufatti in giada e i sacrifici umani "impregnavano" di forza la piramide? Il lavoro di archeologi e antropologi a Shimao è appena iniziato.

La prima guerra macedonica (Leggende Romane)

La prima guerra macedonica La seconda guerra punica fu la prima grande guerra mondiale del Mediterraneo, che coinvolse moltissimi stati. Non...